la memoria è l’avvenire del passato

Creato il 13 giugno 2011 da Viadellebelledonne

Il passato – diciamo “il lascito culturale”, poiché è fondamentalmente di ciò che si tratta – non è una identità prefabbricata e fissata una volta per tutte. È una identità in divenire a pari titolo del presente. Ogni epoca e ogni gruppo umano legge il passato in funzione dei propri bisogni. E se un gruppo umano di una qualunque epoca si mostra incapace di leggere il proprio passato in funzione dei propri bisogni, la colpa non ricade sul passato, ma sullo stesso gruppo umano. In generale, la colpa è di non conoscere il proprio passato e, quindi, di non essere in grado di riconoscere ciò di cui si avrebbe bisogno. E anche quando ciò di cui si avesse bisogno fosse fare tabula rasa, non si farebbe ignorando il passato o fingendo di ignorarlo. dz

una recensione di Daniele Assunta Zini

Come Stendhal, che, spesso, tornava sulla storia della sua vita “senza illusioni in proposito”, in quegli scritti segreti destinati alla posterità, anche noi dovremmo essere curiosi di sapere chi eravamo.
Quanto a me, sono decisa a rimediare a questa lacuna.
Il passato – diciamo “il lascito culturale”, poiché è fondamentalmente di ciò che si tratta – non è una identità prefabbricata e fissata una volta per tutte. È una identità in divenire a pari titolo del presente. Ogni epoca e ogni gruppo umano legge il passato in funzione dei propri bisogni. E se un gruppo umano di una qualunque epoca si mostra incapace di leggere il proprio passato in funzione dei propri bisogni, la colpa non ricade sul passato, ma sullo stesso gruppo umano. In generale, la colpa è di non conoscere il proprio passato e, quindi, di non essere in grado di riconoscere ciò di cui si avrebbe bisogno. E anche quando ciò di cui si avesse bisogno fosse fare tabula rasa, non si farebbe ignorando il passato o fingendo di ignorarlo. Quanto a noi italiani, se mai vi è colpa, non è certo nostra, ma di chi avrebbe dovuto elaborare i programmi delle scuole e non dimenticare, con tanta disattenzione, quanto è accaduto in Italia, sui monti, nelle valli e nelle città, tra il 1943 e il 1945. La storia d’Italia non ha avuto solo Enrico Toti, ha avuto qualcuno e qualcosa di più del lancio di una stampella: ha avuto chi ha fatto l’eroe non perché avesse ricevuto la cartolina precetto, ma perché in montagna era andato di sua spontanea volontà, per “salvare la faccia”, se non altro di fronte ai nazisti che “la facevano” da padroni e ai fascisti che “la facevano” da servi.
La Liberazione dell’Alta Italia, negli ultimi giorni di aprile del 1945, fu, sempre, caratterizzata dal rilievo che vi assunsero i protagonisti di grande spicco e gli avvenimenti di determinante portata. I capi militari della Va e della VIIIa Armata alleate, i generali tedeschi, Benito Mussolini (1883-1945) e i suoi, i comandanti partigiani delle montagne e delle città sono i grandi comprimari di quei giorni in cui si consumò, per noi, l’estrema tragedia della guerra.
I tedeschi sono in rotta, dunque, davanti al Po, il massimo fiume che conoscerà negli anni del dopoguerra altre rotte e travalicamenti: le divisioni corazzate della Blitzkrieg (guerra lampo) si affollano tra le vene d’acqua del delta, colme dell’apporto primaverile, e sono tornate a essere, si direbbe, le lente torme di unni di millecinquecento anni prima: fuggono su carri trainati da tardi buoi razziati nelle esauste campagne dietro il fronte, saccheggiano per, poi, abbandonare il grano e le bestie macellate sulle rive invalicabili del fiume. Gli aerei li tormentano dall’alto, le granate piovono con cieca devastazione. Vi è l’angosciato sbandamento dei grandi disastri, ma ancora si spara, si resiste, si cerca di contenere la pressione anglo-americana, di intimidire con apocalittici bandi, che hanno, ormai, tutta l’inefficacia delle grida manzoniane, il movimento partigiano, che morde ai fianchi; qualche volta si fucila ancora.
Ma in questa sterminata tragedia di uomini in armi, la gente, l’attonita, impaurita e speranzosa gente comune, dov’è?
Questa guerra in dissolvimento passa letteralmente sulla testa di centinaia di migliaia di italiani, di donne e di uomini, di vecchi e di bambini che, spesso, hanno scelto il seno della terra come ultimo e più rassicurante rifugio. Questa guerra sotterranea non ha storia, è spoglia di quel dinamismo dal quale nasce l’estetica degli eroi: si aspetta e basta. Nere bestie feroci raspano e soffiano davanti alle tane sotterranee, nelle quali le madri italiane hanno raccolto, trepidando, le loro nidiate. Non si deve uscire, si deve attendere là, sarà quel che sarà. La guerra sta per finire e non si può concedere al caso beffardo l’opportunità di colpire a morte sulla soglia della pace e della salvezza. Là, nei rifugi, gracchiano le radio clandestine, sincopate dalle interferenze, affluiscono notizie imprecise, talora dolorosamente deprimenti, talaltra di un ottimismo enfatizzato. Chi visse quei giorni non può non ricordare la doccia scozzese delle notizie e delle smentite, quando la Liberazione, che, al nord, si accompagnava, virtualmente, alla fine della guerra, appariva a portata di mano e, poi, d’improvviso, a una distanza di spazio e di tempo tali da dare lo scoramento. Il popolo, che ascoltava, con il batticuore, il rimbombo, anche troppo prossimo, della guerra combattuta al piano di sopra, non può certo essere accusato, oggi, di indifferenza o di egoismo. Era tutta gente ferita, i cui figli si erano perduti in Africa, in Russia, in Jugoslavia, in Grecia, in Francia, nella piana del Liri o in Garfagnana, era un popolo ridotto, con la sua fame e il suo scetticismo, all’ultimo espediente cui gli animali braccati affidano la sopravvivenza: una tana sottoterra. In tali condizioni e tra tante arbitrarie violenze quello della sussistenza era, già, un vittorioso ideale. Talvolta, giù nelle cantine puntellate arriva la notizia che, per le strade, con le armi in pugno, vi sono anche “i nostri”, i quali si battono nel modo, si potrebbe ben dire “tradizionale”, in cui si sono battuti gli italiani nell’arco dei cinque anni di guerra: armi poche e vecchie, posizioni strategiche svantaggiate, prospettive quasi disperate. La Resistenza dovette resistere anche sul fronte della propria materiale miseria. Ma questi, che sono, forse, i soldati peggio in arnese di tutta una guerra combattuta da poveracci, hanno la vittoria sulla canna dei loro spossati “91”. Per le strade di Ferrara, di questi portatori d’armi senza caserma né addestramento, che tirano sui tedeschi come si spara alle folaghe dalle arginelle delle valli di Comacchio, ne moriranno ventotto in un giorno solo. E sarà l’ultimo giorno di battaglia, il 26. Questi morti chiudono l’arco della guerra di Liberazione così come i fucilati contro le spallette del fossato del Castello l’avevano aperto, se è vero che la Resistenza, in Italia, inizia dalla “lunga notte del ‘43”, con l’eccidio degli ostaggi ferraresi.
Fare la recensione di un libro è sempre cosa difficile.
Se, poi, il libro è scritto da un Amico, per il quale nutriamo stima e affetto, siamo come tétanisés dall’onore che ci è fatto.
Vi è l’Amico.
E vi è il soggetto che ha scelto di trattare.
“Un nuovo libro sui crimini della Volante Rossa, un libro di più!”
diranno alcuni,
“Era veramente necessario?”
Sì.
Questa “altra storia della Volante Rossa” non è “un libro di più sui crimini della Volante Rossa”, un’ennesima versione più o meno autogiustificatrice.
Il libro di Massimo Recchioni è “un’altra storia della Volante Rossa”.
“Un’altra storia” perché è uno sguardo particolare e non personale che porta su questo periodo tragico, di cui continuiamo a pagare le conseguenze.
Molto è stato scritto sugli anni della Resistenza, eppure, dopo aver letto solo una parte di questa letteratura, in continuo incremento, ho notato, con un senso di vivo rammarico, come abbondi di errori di fatto e di interpretazione. Naturalmente, la perfetta verità storica è un fuoco fatuo, ma vedo chiaramente che l’era mediatica incombe anche sul campo letterario e che gli errori vengono raccolti, ripetuti e accresciuti dalla presente generazione di storici. Tanto più necessario, dunque, che qualcuno di noi ripeta quello che veramente avvenne, prima che l’errore metta radici così salde da non permettere più ai posteri di distinguere la realtà dalla fantasia. Certo, nessuno può pretendere di essere il portavoce autorizzato di un’intera generazione. L’idea stessa di generazione è un mero artificio mentale, non si sa neppure dove inizi la propria generazione o dove finisca, né se sia stata “perduta” o “trovata” e, tuttavia, i nostri ricordi di testimoni personali possono offrire utili documentazioni sul movimento delle idee in un dato periodo.
Da qualche anno l’esperienza della guerra di Resistenza – che si svolse nel nord tra l’8 settembre 19431 (data dell’annuncio della firma dell’armistizio da parte del maresciallo Pietro Badoglio) e il 25 aprile 1945 (data della liberazione del territorio) – è al cuore di una controversia, che mira a rigettare radicalmente il ruolo e il significato dell’antifascismo nella storia dell’Italia contemporanea. Il rigurgito, che qualche critico ha definito “mal di Pansa”, si concentra, essenzialmente, sul preteso carattere “antidemocratico” dei raggruppamenti antifascisti – che, secondo questa teoria, non avrebbero, in definitiva, rappresentato che se stessi nella lotta – e sulla crudeltà delle violenze comuniste, particolarmente nei mesi successivi alla Liberazione.
La “giustizia sommaria” fece circa 10mila vittime nei ranghi fascisti.
A proposito dei comunisti scriveva il giornalista Luigi Barzini (1874-1947):
“Erano ricchi, finanziati dal pingue bottino di guerra conquistato nella Valle Padana, dai forti contributi sovietici, dalle sottoscrizioni entusiaste degli iscritti. Erano armati, più potenti delle forze armate italiane e della polizia, limitate dal trattato di pace, poiché i comunisti possedevano quasi intatto l’apparato clandestino della Resistenza, con armi e munizioni… condannavano a morte chi volevano ed eseguivano le condanne senza che la legge, lo Stato, la polizia, i tribunali potessero intervenire.”
Ora il revisionismo tende a mettere insieme nello stesso calderone tutte le vittime della guerra, a renderle irriconoscibili, al fine di legittimare la riabilitazione parziale del passato fascista. Fortemente politicizzato, sino dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il dibattito sulla Resistenza ha, sempre, oscillato tra il silenzio istituzionale e l’enfasi testimoniale.
È stata una guerra di liberazione nazionale, una guerra civile o una guerra di classe?
Ciascuna di queste definizioni rinvia a una comprensione diversa della lotta antifascista. È tempo, per evitare che la banalizzazione del fascismo guadagni ancora terreno, che gli storici restituiscano alle vittime le loro vere identità. Quanti hanno vissuto quegli eventi e ne sono stati segnati nell’anima e nella carne, leggeranno, con sempre la rabbia nel cuore, le pagine di Massimo Recchioni. Gli altri vi troveranno materia di riflessione, perché sarebbe un errore credere che questo libro parli di ieri : parla di oggi e anche di domani.
Del nostro prossimo avvenire.
Una parte della destra utilizza, oggi, in maniera ricorrente la tematica della guerra civile e delle vittime della lotta politica e sociale condotta dai partigiani comunisti, per screditare i suoi avversari politici. Al di là delle polemiche, la violenza, inflitta o subita, resta, innanzitutto, una esperienza personale evocata con reticenza. L’attore e il testimone, come ricorda Jean Norton Cru (1879-1949) a proposito della prima guerra mondiale, possiedono a questo titolo una superiorità indiscutibile sul ricercatore, soprattutto quando quest’ultimo vive in società poste sotto il regno della pace civile che ostentano una intolleranza ai fenomeni violenti. Nondimeno, lo storico non può eludere questo fenomeno essenziale. In primo luogo perché, allo stesso titolo dei fenomeni di resistenza civile, la violenza ha costituito la via fondamentale per affermare il rifiuto dell’occupazione e del fascismo. Ben più della efficacia militare, la visibilità attraverso le operazioni di guerriglia ricordava al nemico la realtà della lotta armata.
Ecco, dunque, un libro che graverà pesantemente sulle nostre coscienze. Poiché non è il libro di un vinto, scritto per vinti, ma la spiegazione impietosa ed esaltante di una disfatta per futuri combattenti. Naturalmente, il libro si potrebbe riceverlo come un pugno allo stomaco. Ma lo choc che vuole provocare è molto più profondo. Chi ha l’illusione di conoscere già la Volante Rossa, dovrà abbandonare i propri pregiudizi, se vuole cogliere la realtà. Chi non ne pensa niente, dovrà fare uno sforzo per penetrare tutti gli arcani di una organizzazione, in effetti, “segreta”. Le motivazioni politiche non bastano a spiegare né l’autore, né i suoi personaggi. E pro o contro l’autore e il suo libro, pro o contro la Volante Rossa, si dovrà, innanzitutto, far tacere i propri sentimenti se si vorrà abbracciare l’insieme. Tutto ciò è, forse, chiedere molto, ma tali sono le esigenze della Storia, quando chi l’ha fatta e chi l’ha scritta hanno mostrato lo stesso talento.
Coloro che sanno, leggendo Massimo Recchioni, diranno:
“È proprio quanto è accaduto.”
Gli altri, e, in particolare, i lettori metropolitani, lobotomizzati da anni di menzogne, saranno, si può sperarlo, “risvegliati” da questo testo senza concessioni al pret-à-penser.
Allora allacciate le cinture, ça va tanguer.
Il dopoguerra è stato un periodo molto agitato. Nell’estate del 1945, alcuni gruppi partigiani ripresero le armi. A Milano operò la Volante Rossa, o più propriamente la Volante Rossa Martiri Partigiani, costituita da partigiani comunisti provenienti dalle Brigate Garibaldi 116a, 117a e 118a. Insediati nei locali della ex-Casa del Fascio di Lambrate (Milano) in via Conte Rosso 12, trasformata, dopo il 25 aprile 1945, in Casa del Popolo, i militanti della Volante Rossa furono operativi, per quattro anni, fino al gennaio del 1949.
Lo scopo primo dell’organizzazione, ben coperto da una facciata pubblica di circolo giovanile, era quello di pareggiare i debiti che i fascisti avevano con la giustizia popolare.
Il processo a loro carico si svolse, nel 1951, presso il Tribunale di Verona, e si concluse con ventitre condanne, comprensive di quattro ergastoli. Eligio Trincheri, condannato all’ergastolo, restò in carcere fino al 1971, quando fu graziato da Giuseppe Saragat. Giulio Paggio (Alvaro), Paolo Finardi (Pastecca) e Natale Burato (Pedro), che erano riusciti a riparare in Cecoslovacchia, furono graziati, il 26 ottobre 1978 dal neo-eletto Presidente della Repubblica, Sandro Pertini (1896-1990).
Nel 1952, il ministro dell’interno Mario Scelba (1901-1991), in Parlamento, parlò di oltre settanta omicidi commessi dalla Volante Rossa oltre a centinaia di altre azioni, quali attentati dinamitardi, incendiari, e intimidazioni verso persone accusate di collusione con il vecchio regime.
La convinzione che bisognasse farsi giustizia da sé aveva infiammato l’Italia già prima dell’emanazione del D.P.R. 22 giugno 1946, n. 4, meglio noto come amnistia Togliatti, che contemplava i reati comuni e politici, compresi quelli di collaborazionismo con il nemico. All’indomani delle elezioni del 2 giugno 1946, con le quali – accanto al referendum istituzionale, che sanciva la nascita della Repubblica – veniva eletta l’Assemblea Costituente, Alcide De Gasperi (1881-1954) aveva sollecitato Palmiro Togliatti2 a predisporre uno schema di amnistia. Nella relazione al Presidente del Consiglio Togliatti scriveva:
“Signor Presidente, la Repubblica celebra il suo avvento emanando fra i suoi primi atti un provvedimento generale di clemenza. Non è necessario spender parole per motivare questo atto per quanto riguarda i reati comuni, rientrando esso nella pratica costituzionale e politica italiana per le date storicamente solenni; né potrebbe immaginarsi data più solenne di quella di cui, dopo che il popolo italiano, chiamato a esprimere la sua volontà circa la forma istituzionale dello Stato, ha scelto la forma repubblicana, questa scelta è stata riconosciuta e annunciata nelle forme previste dalla legge e si sono compiute le prime modificazioni costituzionali che da essa derivano.
Col passaggio dalla monarchia alla Repubblica si è aperto un periodo nuovo nella vita dello Stato italiano unitario, ed è giusto che in questo momento un atto di clemenza intervenga per alleviare le condizioni anche di coloro che avendo violato la legge penale comune ne subiscono o devono subirne le conseguenze, e per arrecare un conforto sensibile a un numero ingente di loro familiari derelitti e angosciati.
Ci si è bensì preoccupati, per i reati di diritto comune, di non eccessivamente estendere la portata dell’atto di clemenza, in vista del notevole aumento del numero dei reati comuni al quale si è assistito negli ultimi due anni, e specialmente in vista della frequenza di alcune figure di reato particolarmente gravi e ripugnanti alla pubblica coscienza e moralità.
La generale aspirazione a un sollecito ritorno a normali condizioni di sicurezza delle persone e dei beni ha quindi dettato il limite dell’amnistia e del condono per i reati di diritto comune e le esclusioni cui sarà fatto cenno più avanti. Per i reati politici ci si è trovati di fronte a esigenze in parte e talora contrastanti, di cui si è dovuto tener conto nel determinare il contenuto e i limiti dell’atto di clemenza.
Giusta e profondamente sentita, da un lato, la necessità di un rapido avviamento del Paese a condizioni di pace politica e sociale. La Repubblica, sorta dalla aspirazione al rinnovamento della nostra vita nazionale, non può non dare soddisfazione a questa necessità, presentandosi così sin dai primi suoi passi come il regime della pacificazione e riconciliazione di tutti i buoni italiani.
Un atto di clemenza è per essa in pari tempo atto di forza e di fiducia nei destini del Paese.”
Ma il provvedimento, che – pubblicato nella gazzetta ufficiale del successivo 23 giugno con efficacia retroattiva dal 18 – avrebbe dovuto essere un atto di pacificazione a guerra finita, fu applicato, in larga parte dalla magistratura, oltre le intenzioni del legislatore e, sfruttando certe ambiguità del testo, si tradusse nella liberazione di migliaia di fascisti. Tanto che, il 2 luglio 1946, Togliatti, con l’emanazione della circolare telegrafica n. 9796/110, raccomandò interpretazioni restrittive nella concessione del beneficio.
“Quesiti qui posti et incidenti provocati in località periferiche da scarcerazioni per amnistia di criminali fascisti mi inducono ad attirare l’attenzione delle signorie loro su necessità che amnistia venga applicata secondo spirito legislatore che volle continuasse azione punitiva contro responsabili fascisti così come dicesi chiaramente in relazione introduttiva. Qualora sorgano in loro dubbi circa estensione applicazione termini decreto, si orientino secondo categorie per cui in decreto legge luogotenenziale 22 aprile 1945 numero 142, venne stabilita presunzione di collaborazionismo.”,
scriveva Togliatti nella stessa circolare telegrafica, un richiamo all’ordine che poteva sortire ben poco effetto – e difatti non ne sortì alcuno – su una magistratura, formatasi nel ventennio e che al regime fascista doveva i propri avanzamenti di carriera. Per molti partigiani fu un’ingiustizia politica e morale che si andava ad aggiungere ad altri problemi rimasti irrisolti. Per chi aveva combattuto per la libertà, era insopportabile vedere i fascisti uscire di galera. Solo nei primi quattro giorni di applicazione (25-28 giugno), la Corte di Assise di Roma scarcerò, in applicazione del decreto di amnistia, ottantanove fascisti accusati di collaborazionismo e atti rilevanti:
“Tra di essi comparivano elementi distintisi nell’apparato propagandistico della Rsi, una quantità di spioni e delatori e alcuni giudici dei tribunali speciali”3
Verso la fine di luglio, un mese dopo, migliaia di fascisti avevano beneficiato dell’amnistia, compresi dirigenti noti per l’attività politico-militare, svolta nel 1943-45, nelle brigate nere e nelle varie formazioni armate della Repubblica Sociale Italiana. Tra i primi beneficiari del provvedimento figuravano il mandante dell’assassinio dei fratelli Rosselli e quattro torturatori della famigerata banda Koch4.
Chi aveva voluto questo atto di clemenza?
Vi era qualcosa di sbagliato nei tempi e nella formulazione?
O, al contrario, vi era qualcosa di inadeguato nei giudici cui era demandato il compito di interpretare e di applicare la legge?
Quello che è certo è che l’amnistia portò all’archiviazione di molti processi, sollevò un’ondata di risentimenti e lasciò senza risposta una moltitudine di domande, in altri termini, l’amnistia si inseriva in un quadro più ampio che vedeva l’insabbiamento di molti procedimenti per crimini di guerra nazifascisti e garantiva l’impunità agli italiani colpevoli degli stessi crimini di guerra.
Ma è veramente utile ritornare, qui e adesso, sulla politica seguita dal Partito Comunista di Togliatti?
La “giustizia sommaria” nell’Italia dell’immediato dopo la Liberazione può leggersi come la tragica rivelazione delle atrocità commesse dai fascisti della Repubblica di Salò e dall’esercito di occupazione tedesca durante i venti mesi di guerra civile, cui veniva ad aggiungersi la memoria delle violenze fasciste nel corso dei venti anni di regime. È illuminante a questo riguardo uno stralcio della relazione che l’Arma dei Carabinieri aveva inviato, l’anno prima, nell’agosto del 1945, al Comando Alleato, allarmato sulle violenze in corso in Emilia:
“Prima dell’avvento del fascismo l’Emilia fu un focolaio di gravi agitazioni, e per affermarsi (…) il fascismo dovette dare largo sviluppo allo squadrismo (…). Tutto ciò ha concorso a creare odi e rancori. A ciò si aggiungano le distruzioni operate dalla guerra e i soprusi compiuti su larga scala, in maniera talora efferata, durante la dominazione nazifascista. Si è così determinata un’atmosfera di odi e rancori che spiega, se non giustifica, i criminosi atti di reazione verificatisi dalla data della liberazione in poi (…).”5
Quello che appariva difficile da digerire era, dunque, questa propensione alla pacificazione. Il caso dei cosiddetti ribelli di Santa Libera di Asti del primo agosto del 1946, fu il più clamoroso, seguito da Cuneo, Verona, Pavia, Torino, Morbegno, Luino. Circa 1300 ex-partigiani posero sul tappeto una serie di problemi, dal ritiro dell’amnistia, alla messa al bando de L’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini, al blocco dei licenziamenti dal corpo di polizia, all’assunzione nelle fabbriche e negli uffici.
Sull’onda di queste rivendicazioni, non ultima quella legata al fatto che, se i fascisti uscivano di galera, in galera restavano molti combattenti per la libertà, alcuni partigiani tornarono in montagna. Fu una ribellione spontanea per affermare i principi della lotta partigiana, che sembrava messa in un angolo, lasciando spazio alla reazione. Pietro Nenni (1891-1980) dette un contributo decisivo, riconoscendo nel malcontento per l’amnistia ai fascisti il nodo centrale della questione, posta dai rivoltosi, e lavorando, fino a ottenerlo, per un decreto che eliminasse alcune pastoie burocratiche per i partigiani detenuti.
“L’incontro”,
scrive Laurana Lajolo nel suo I ribelli di Santa Libera,
“è lungo e cordiale, e i partigiani ricevono ampie assicurazioni che le loro richieste saranno prontamente esaminate dal governo. In quella occasione, Nenni è in grado di comunicare che è già stato approvato il decreto per l’equiparazione dei partigiani ai volontari di guerra e per il riconoscimento dei gradi ai fini amministrativi.
Questa è sicuramente una delle questioni che sta più a cuore al resistenti. I provvedimenti legislativi, approvati dal consiglio dei ministri il 28 agosto, prendono in considerazione solo le rivendicazioni normative a favore dei partigiani, dei reduci, dei familiari dei caduti, mentre sono subito accantonate le tematiche politiche, con le richieste di abolizione dell’amnistia, di soppressione dell’uomo qualunque, di controllo dal basso dell’operato dei prefetti.
Le garanzie date da Nenni bastano, comunque, a spingere i rivoltosi sulla strada di casa. Già il 27, Valpreda e i suoi lasciano Santa Libera e scendono ad Asti, accolti trionfalmente dal sindaco Platone. In Oltrepò, la maggior parte dei ribelli smobilita entro il 31 agosto, anche se piccoli gruppi restano in montagna almeno fino al 6 settembre. Nella zona di La Spezia, il movimento si esaurisce il 3 settembre, mentre il 29 agosto si ha un altro sussulto a Pallanza, dove duecento partigiani bene armati entrano nelle carceri, disarmano le guardie e liberano tre loro compagni arrestati per un omicidio politico a Viareggio, una formazione al comando di Antonio Canova (“Canova Tigre”) sale in montagna.
Ma si tratta, appunto, degli ultimi sussulti di una ribellione che si va ormai ovunque spegnendo. Il governo chiude il caso, non senza una polemica fra Nenni e De Gasperi. Il presidente del Consiglio critica la manifestazione di Asti, definendola “un deplorevole episodio che ha turbato la norma di disciplina e di ordine necessari al paese come non mai.”
Nenni annotò con soddisfazione nel suo diario:
“La crisi è risolta. I democristiani hanno “rogne” ma De Gasperi li ha accontentati con qualche deplorazione di forma e sostenendomi nella sostanza. Secondo Scoccimarro la destra aveva filtrato agenti suoi fra i partigiani per spingere alla rottura. La verità è che poteva bastare un colpo di fucile per creare una situazione drammatica.”
E circa l’intervento in Assemblea Costituente del 21 settembre 1946 scrisse:
“Chiamato in causa molto affettuosamente da Celeste Negarville ho preso oggi la parola alla Costituente chiarendo che cosa è stata e come nata l’agitazione dei partigiani. Ho parlato con vigore e ho sollevato entusiasmo a sinistra ma mi rimprovero il tono alquanto concitato, come mi capita quando sono colto di sorpresa. Molti applausi e le congratulazioni di De Gasperi e dei membri del governo. Togliatti mi ha malignamente complimentato per “il magistrale diretto e De Gasperi.” Infatti, parlavo a nuora perché nuora intendesse.”
L’amnistia varata da Togliatti fu seguita da ulteriori amnistie che allargarono, ulteriormente, i termini temporali e la casistica. Il 7 febbraio 1948, era il giovane Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del consiglio, a emanare un decreto con il quale erano, definitivamente, estinti tutti i giudizi in corso.
La grande febbre delle passioni e l’atmosfera di imminente giudizio universale si erano andati attenuando dopo le elezioni del 18 aprile, ma nella moltitudine comunista l’amarezza per la sconfitta elettorale tendeva a portare alla superficie una nuova convinzione: se i poveri erano stati derubati della vittoria elettorale dalle “magagne” dei ricchi, ebbene, alla prima occasione si sarebbero fatti giustizia con la violenza, ricorrendo alle armi. Inoltre, molti si consolavano e si eccitavano dicendosi che la pace nel mondo non sarebbe durata a lungo e che, un giorno o l’altro, l’esercito sovietico sarebbe spuntato trionfalmente sulle Alpi. Stalin era chiamato “Baffone” con affettuosa familiarità e mai, come dopo il 18 aprile, i muri delle città e dei borghi si coprirono di scritte inneggianti a lui.
Questi erano gli umori palesi di vari strati della popolazione, e naturalmente il governo se ne preoccupava. Ai primi di luglio di quel 1948, era iniziata a Montecitorio una violenta discussione in merito a una proposta di legge che comminava pene severe per i detentori abusivi di armi, e il governo non intendeva transigere. In effetti, la posta era di capitale importanza, data la notevole consistenza degli arsenali clandestini in mano a coloro che aspiravano alla rivoluzione. Si trattava in genere di armi nascoste bene e mantenute in piena efficienza con cure metodiche. Quante fossero, possiamo desumerlo, parzialmente, da un comunicato ministeriale in merito ai rastrellamenti di armi e di munizioni, pubblicato in epoca successiva: 174 canoni, 792 mortai, 5.426 mitragliatrici, 36.025 fucili mitragliatori, 179.676 moschetti e fucili da guerra, 48.301 pistole, 309.290 bombe a mano, 11.486 quintali di esplosivi, 436 apparecchi radiotrasmittenti, 25 milioni di cartucce. Naturalmente ignoto resta il numero delle altre armi che furono distrutte di nascosto oppure gettate in fiumi, stagni e dirupi; o conservate, nonostante i rigori della legge. Se armi e munizioni bastavano per mettere sul piede di guerra alcune divisioni, gli uomini erano pure disponibili e resi esperti dalle molte guerre combattute tra il 1935 e il 1945, ancor più dalla lotta partigiana. Anche l’ambiente era propizio a un’insurrezione armata. Molti ricchi avevano trasferito i loro capitali nelle banche svizzere e si tenevano pronti a passare i confini; la piccola borghesia stentava, indecisa tra le angustie del dopoguerra, e il proletariato o era favorevole ai comunisti o appariva rassegnato a schierarsi con loro non appena avessero dimostrato di essere i più forti.
Tuttavia, dopo le elezioni del 18 aprile, la situazione stava cambiando: gli anticomunisti, ossia i due terzi del Paese, andavano riprendendo animo e fiducia e da parte sua il governo aveva presentato il progetto di legge sulla detenzione abusiva di armi con l’intesa che non appena il progetto fosse stato approvato, deputati e senatori sarebbero stati lasciati liberi per le ferie estive. Quando Antonio Pallante sparò a Togliatti, alle 11,25 del 14 luglio 1948, si era, appunto, alla vigilia della chiusura di Montecitorio.
A questo punto sorge spontanea una domanda: se i comunisti, in quel periodo, erano davvero così forti, se effettivamente disponevano di un esercito superiore – e in modo schiacciante – per numero e per qualità alle forze dell’ordine, se l’ambiente era disposto e rassegnato a dare loro il potere, per quale motivo non fecero la rivoluzione?
Ancora oggi, non è facile rispondere a questa domanda.
Era la stagione del solleone, Togliatti andava, lentamente, rimettendosi, gli animi anelavano a distendersi dopo tante violente emozioni e gli scampati pericoli. All’interno dei partiti vi fu una rimeditazione dei problemi politici e, da allora, iniziarono a mutare alcune prospettive fondamentali nel panorama poltico italiano. Con l’uscita dei democristiani dalla CGIL, venne meno l’unità sindacale, che era stata un’arma considerevole nelle mani dei comunisti. Il loro isolamento divenne via via netto, quando i socialisti ruppero il fronte popolare decidendo di non rinnovare il patto di unità d’azione.
Nel mese di febbraio del 1949, Junio Valerio Borghese (1906-1974)6 era messo in libertà, la stessa sorte si prospettava per il maresciallo Rodolfo Graziani (1882-1955)7.
In questo quadro, la politica del puro difensivismo, del frapporre le distanze, rischiava di coinvolgere ancora di più l’intero movimento partigiano e fu lo stesso Togliatti a prendere in mano la situazione, superando tutte le incertezze del suo partito, per assumere una netta posizione con un editoriale sull’Unità del 20 febbraio 1949:
“Erano dunque dei malfattori attuali o potenziali gli uomini, i giovani che per due anni (…) combatterono come volontari della libertà? Condanniamo e respingiamo nel modo più energico gli atti di terrore, veicolo fra l’altro, di delinquenza comune e di provocazione ma, in pari tempo, vogliamo capire su quale terreno questi atti maturano, perché essi sono sintomo sempre o quasi sempre, di situazioni gravi, di squilibri politici e sociali, su cui a lungo non ci si regge.”
A sua volta, Mario Scelba accusò apertamente il PCI di collusione con la Volante Rossa, intervenendo alla Camera, il 25 febbraio 1949:
“Io non desidero anticipare quale sarà il processo ma posso dire che abbiamo le prove documentate che il mandante e l’organizzatore dei delitti di Milano, il cosiddetto “Alvaro”, capo della Volante rossa, era il capo dei servizi di sicurezza della federazione comunista di Milano.”
È sulla base di questo giudizio che il PCI favorì il riparo in Cecoslovacchia di Giulio Paggio, Paolo Finardi e Natale Burato.
E con quella fuga svaniva, per sempre, il sogno della rivoluzione socialista.
La resistenza italiana rientra nel movimento più vasto di opposizione al nazifascismo che si sviluppa in Europa, ma ha avuto connotazioni particolari. Nei Paesi sconfitti militarmente e occupati dai nazifascisti, quali la Francia, il Belgio, la Danimarca, i Paesi Bassi, la Norvegia, la Grecia, la Jugoslavia, l’Albania, la Resistenza costituì una seconda fase della guerra che li aveva implicati. L’Italia, al contrario, sotto la guida dittatoriale del fascismo, era restata, fino all’8 settembre 1943, l’alleata di Hitler, aveva partecipato, come tale alla guerra di aggressione ed era stata, a sua volta, una potenza occupante. Qui, la Resistenza sorse quando – una volta caduto il regime fascista, il 25 luglio 1943, e firmato l’armistizio con gli Alleati, il 3 settembre dello stesso anno, dopo disfatte irrimediabili – le forze politiche democratiche, che si erano ricostituite, si appellarono al popolo per cacciare fascisti e tedeschi.
La guerra di Liberazione in Lombardia – che costò il sacrificio di 5.084 militari e di 1.820 civili – iniziò dal momento in cui le truppe tedesche entrarono in territorio lombardo dopo l’8 settembre, accolte a colpi di fucile intorno alla stazione centrale di Milano.
Militante di una libertà di pensiero alla quale non concede niente, Massimo Recchioni, con il suo spirito e il suo stile difende l’onore di un pugno di uomini che hanno saputo mettere leur peau au bout de leurs idées8. Un omaggio a tutti coloro che sono morti, ma vivono ancora nelle memorie e che, dall’al di là, non rimpiangono nulla.
La guerra non fu en dentelles.
Con quell’“autorità” che gli derivava dall’essere stato uno degli attori di prima linea negli eventi che aveva scelto di narrare, Giulio Paggio non lo ha mai negato.
La morte sanzionava i tradimenti.
Cose che non si dicono mai, sono dette qui semplicemente e sollevano ancora orrore.
La condotta del PCI è, in quegli anni, molto singolare: da un lato le direttive sovietiche, mai disattese dalla dirigenza togliattiana, di inserirsi nel processo democratico per non squilibrare i rapporti di Yalta, dall’altro, lo schizofrenico tentativo di mantenere vicina una base sociale proiettata verso una liberazione rivoluzionaria del Paese.
É in questa ambiguità di atteggiamento che hanno trovato spazio i militanti della Volante.
“Être “resistant”, ce n’est pas du passé. C’est refuser encore et toujours l’inacceptable. Tout ce qui porte atteinte à la dignité humaine: le racisme, la violence, la misère, le mépris de l’autre, son humiliation.”,
sono parole della partigiana Geneviève de Gaulle.
Dire che sembra ieri o che non sembra vero, non è soltanto l’indulgente luogo comune suggerito dall’inganno della memoria. Per molti di noi quella situazione di speranze disattese e di novità procrastinate sopravvive, attuale, nelle promesse e nelle incertezze di cui sembra gravida la tensione politica in questi giorni. Anche per questo, oggi, la commemorazione della Resistenza, per quel tanto di conclusivo e remoto che si accompagna a tutti gli anniversari, deve sembrare impropria a quella generazione di ottantenni che la vissero e le sopravvissero senza vederne realizzate le grandi promesse civili. Ma la rievocazione, nelle parole e nelle immagini di Massimo Recchioni, vuole tenere conto soltanto del dovere di ricordare: restituire alla storia volti e momenti di un tempo in cui noi non eravamo.
Il libro di Massimo Recchioni si chiude con il capitolo:
“Conoscere per capire, capire per ricordare”
Per coloro che capiranno, alcuna spiegazione è necessaria.
Per coloro che non capiranno, alcuna spiegazione è possibile.
Libro di rabbia, tonificante, ben documentato, ben scritto, libro utile, perfino indispensabile.
Da consumare senza moderazione.

Note
1 La mattina dell’8 settembre, Pietro Badoglio, capo del governo, annuncia la firma dell’armistizio avvenuta segretamente cinque giorni prima.
“Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane.
La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza.”

2 Tra i collaboratori di Palmiro Togliatti, durante l’incarico governativo di Guardasigilli, figurava Gaetano Azzariti, Presidente del Tribunale della Razza dal 1938 al 1943.

3 Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946: colpo di spugna sui crimini fascisti, pag. 49
4
Nell’aprile del 1944 la banda Koch arrestò anche Luchino Visconti. Il regista milanese, scarcerato, dopo pochi giorni, grazie all’intercessione dell’attrice Maria Denis, fu uno dei principali testimoni nella requisitoria del processo che portò alla fucilazione di Koch, raccontando i particolari sui metodi di interrogatorio della banda.
“Quando venni arrestato Koch diede ordine che venissi fucilato nella notte. Per otto giorni, rinchiuso nel cosiddetto “buco” della pensione Jaccarino, attesi che la sentenza, continuamente confermata dall’aguzzino, fosse eseguita. Una sera Caruso (il questore di Roma, ndr.) venne in visita alla pensione e Koch, per divertirsi un poco, gli mostrò due patrioti che avevano appena finito di subire la tortura. Successivamente venni trasferito a quello che nel gergo della Jaccarino veniva definito “l’ammasso”: uno stanzone fetido, con un pò di paglia in terra.”
dalla deposizione testimoniale di Luchino Visconti agli atti del processo Koch

5 Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’interno, Direzione generale di Ps, Affari generali e riservati (Ps-Agr), 1944-1946, b. 15
6 Nel dopoguerra, Junio Valerio Borghese costituì gruppi clandestini armati in stretto collegamento con Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, due organizzazioni di estrema destra. Nel 1970, fu tra i promotori di un tentativo di colpo di Stato, il fallito Golpe Borghese (noto anche come Golpe dell’Immacolata), improvvisamente interrotto in circostanze tuttora non chiare.

7 Esperto di guerre coloniali, operò con efficacia, ma con spietata durezza nella riconquista della Libia (1921-1931) e durante la guerra di Etiopia e nella successiva repressione della guerriglia abissina (1935-1937).
8 “E qui invece? Per esempio hai ritrovato qui qualcuno che conoscevi da prima?
Sì, qualcuno sì, coinvolto negli stessi fatti per i quali ero fuggito io, qualcuno per altri. Ma anche gente che con noi non c’entrava nulla, che aveva approfittato del momento per le sue vendette personali. Nella confusione del momento, il Partito si trovò costretto ad aiutare anche loro. Comunque, tra quelli che incontrai qui c’era il nostro comandante, il tenente Alvaro, che in questi ultimi mesi, nel paesino dove si trova, non se la passa molto bene. Cominciamo tutti ad avere una veneranda età.”
Massimo Recchioni, Volante Rossa, un sogno nel cassetto che andava oltre il 25 aprile.

*

Massimo Recchioni (1959) è il principale promotore della Sezione ceca dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Si dedica ad attività politiche, giornalistiche, socio-culturali e associative.

Il «tenente Alvaro» era il nome di battaglia di Giulio Paggio, il comandante della Volante Rossa, un raggruppamento di ex partigiani comunisti milanesi attivo nel dopoguerra. Con le sue azioni antifasciste e antipadronali ha incarnato i sentimenti di una «Resistenza tradita» perché incompiuta e non sfociata in una rivoluzione politica socialista. La Volante Rossa operò fino al gennaio del 1949 rendendosi responsabile anche di alcuni omicidi. Per la prima volta questo libro narra le vicende del suo mitico comandante che, evitato l’arresto, con l’aiuto del Pci riparò in Cecoslovacchia dove rimase per il resto della sua vita, nonostante la grazia concessagli nel 1978 dall’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Il «tenente Alvaro» è stato un personaggio misterioso che ha vissuto per trent’anni sotto falso nome nella clandestinità. Ma è stato anche un personaggio molto scomodo, sia per la storia della Resistenza che per quella del Pci, la cui direzione ha sempre avuto con lui rapporti ambigui e contraddittori.
Per narrare queste vicende l’autore si è avvalso di numerose testimonianze raccolte tra gli ex rifugiati politici italiani in Cecoslovacchia che allora arrivarono a contare 500 comunisti accusati e condannati per reati compiuti nel corso delle lotte e degli scontri sociali del dopoguerra. Ne emerge la storia finora sconosciuta di una comunità ritratta sia nelle sue sofferenze materiali che nella sua solidarietà ideale e affettiva nel contesto politico ed economico di una Cecoslovacchia impegnata nella costruzione di un socialismo poi rivelatosi fallimentare. Inoltre, vengono raccontate anche le esperienze di coloro che lavoravano a Radio Praga, nonché quella straordinaria di Oggi in Italia, emittente di controinformazione del Pci, costruita, animata e diretta da quei rifugiati, che da Praga trasmetteva in Italia. Una emittente clandestina, poiché l’allora legislazione italiana impediva l’utilizzo privato delle frequenze radio. A impreziosire l’opera vi è anche un apparato iconografico di oltre 30 fotografie inedite del tenente Alvaro e degli altri protagonisti delle vicende narrate.
Un libro di fondamentale importanza per la ricostruzione di un pezzo di storia del nostro paese sconosciuta perché occultata e rimossa. dal sito dell’editore 



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