Quando Francesca Melandri — il successo del suo bellissimo libro «Eva dorme» è stato ricordato ieri da Toni Visentini su queste pagine — prova a sintetizzare con una formula il senso raccolto dalle testimonianze dei suoi lettori, generalmente parla di «assenza di rancore». Alla fine, lei dice, chi ha attraversato quelle pagine si dichiara colpito da questo: i personaggi che animano le vicende umane e storiche descritte riescono a testimoniare un processo di affrancamento dal dolore, a trasmettere una visione pacificata delle difficoltà e persino dei drammi accaduti. Se meglio compreso nella sua controversa dinamica, il passato può così allentare la sua presa ed emanare un odore nuovo, certo più gradevole del sentore di «rancido» (rancorem era l’odore disgustoso delle sostanze oleose vecchie andate a male) che talvolta ci toglie il gusto e il profumo del futuro.
Si potrebbe obiettare: facile liberarsi dal rancore se non si è direttamente sofferto in prima persona. Facile sorvolare il paesaggio accidentato del dolore attraverso una ricostruzione che può permettersi di immedesimarsi con ogni singolo protagonista perché non si è effettivamente provato sulla propria pelle che cosa significa aver subito un torto, aver perso un congiunto, non essere riusciti a ottenere un risarcimento soddisfacente per le ferite che qualcun altro ci ha inferto. Si tratta di obiezioni comprensibili. Sarebbe però un errore gravissimo lasciare che esse consumino tutto lo spazio e il tempo di ogni nostra possibile reazione. Se forse non abbiamo il diritto di chiederlo agli individui (che pure possono riuscirci autonomamente come dimostrano le toccanti e nobili parole di Pietrina Falqui, sorella di un finanziere ucciso nel 1956, intervistata ieri dal nostro Matteo Pozzi), è invece «vitale» chiederlo al movimento e all’intelligenza complessivi della nostra società, in modo da frapporre un’accettabile distanza tra il «noi» implicato e dannato da quelle vicende lontane e il «noi» che dobbiamo salvare per poter guardare avanti con un po’ di fiducia.
Avvicinandoci alla data dell’11 giugno — quando ricorrerà il cinquantesimo anniversario della «Notte dei fuochi» — mi sembra giusto evidenziare il tema dell’assenza di rancore auspicando che ciò costituisca la tonalità affettiva, lo sfondo emotivo di ogni ricostruzione, intervento o discussione sull’argomento. Non si tratta di «dimenticare» assolutamente alcunché di quel che è accaduto. Non si tratta di smettere di ricercare responsabilità ed eventualmente di attribuire delle colpe (purché si sia disposti a non manifestare indulgenza nei confronti delle proprie). Ripetiamolo: si tratta soltanto di farlo senza più rancore.
Corriere dell’Alto Adige, 19 maggio 2011