Sono alla terza settimana di stage in Cina, nella provincia dello Jangsu, e ancora non ho avuto modo di visitare questo Paese misterioso. “You need a taste of downtown!” mi ripete Cammie, collega d’avventura. Ci organizziamo.
Cammie ed io ci incontriamo alle undici, dopo il “service” (che finalmente scopro essere la messa della domenica). Prendiamo l’autobus fino a Suzhou downtown, ovvero il cuore originario della città prima che la collaborazione con Singapore la facesse diventare una metropoli per expats (“espatriati”) occidentali. Sull’autobus capisco una cosa: non puoi visitare la Cina, la vera Cina, senza conoscere la lingua. Tutte le fermate sono scritte in ideogrammi, l’autista urla in cinese peggio di un gioco di sottobanco per una vecchia console. Due aspetti positivi: primo, che i mezzi pubblici costano davvero poco (2 renmibi, circa 20 centesimi di euro); secondo, che la metropolitana di Milano, linea rossa, ti prepara ad ogni cosa. Cammie è preoccupata per la quantità di gente sul mezzo, e intanto io penso: “Ho l’abbonamento integrato mensile per Milano, orari di punta… vuoi mettere?”.
La prima impressione del cuore di Suzhou è quella di entrare in un set cinematografico. Cammie mi spiega che esistono regole ferree per la costruzione in quella parte della città, così che lo stile architettonico resti integro. Infatti, a differenza delle altre zone o metropoli in cui ogni singolo edificio sembra copiato da un diverso Paese e in un diverso secolo, Suzhou mantiene le viette strette a ridosso dei canali, incorniciati da grappoli di lanterne rosse e da salici piangenti che ne ammorbidiscono le rive. Tutto questo, animato da persone che indossano jeans e da insegne luminose che proiettano quell’angolo di antichità in bagliori di cosmopolitismo. Sorrido pensando che Suzhou è conosciuta come “Oriental Venice“.
Vedo le code per accaparrarsi le mooncake, una sorta di pastella con ripieno di carne che viene consumata durante la Festa del Raccolto (Zhōngqiū Jié) che si terrà tra pochi giorni. “È come se fosse Natale le famiglie si riuniscono, e poi, durante la festa, c’è una luna grande grande, come una torta, una torta grande come non mai!”. Mentre fa cerchi con le braccia in mezzo alla gente, a Cammie spunta un enorme sorriso sulla faccia. Ho notato che la gente del posto è molto gentile, ben disposta nei confronti di questi mangia-riso-con-la-forchetta che si interessano sinceramente di un mondo così diverso.
In un ristorante locale assaggio il famoso squirrel fish – che di scoiattolo non ha proprio nulla – ricoperto da una salsa dolce che ricorda il ketchup. Mi viene spiegato che la cucina di Suzhou, a differenza di quella di altre città, non è piccante, ma molto dolce. Il maiale, il loto e il riso all’ananas lo confermano. Una volta superati i pregiudizi iniziali, la cucina è davvero sorprendente: leggera e fresca. A patto che si tratti di un ristorante consigliato da qualcuno del luogo.
Nel pomeriggio andiamo al Museo di Suzhou. L’arte di qui è un ricamo nella materia, nella trama di ricchi intarsi nel legno, nell’avorio, nella giada. Il tutto, in un equilibrio che rende questa manifattura del dettaglio una forma di espressione senza tempo, in una parola: affascinante. Persino le poesie, scritte secoli fa con grossi pennelli su grossi rotoli, diventano opere d’arte incredibilmente contemporanee. “Dal modo in cui i poeti scrivono, puoi comprendere le loro emozioni” mi spiega Cammie. “Capisco. Allora questo doveva essere piuttosto arrabbiato!” Ridiamo e passiamo al giardino cinese.
Una serie di corti si aprono su edifici ad un unico piano, i tetti finiscono in piccole prue elaborate nel metallo. Le porte finestre sono altri ricami nel legno, fatti di storie di montagne ed alberi in bassorilievi. Ogni finestra segue uno stile di intaglio diverso, ognuna ha un diverso significato. Vorrei poterlo apprezzare di più. Scatto una fotografia.
Decidiamo poi di camminare per le vie, tra i chioschi di cibo locale, mentre il tramonto si colora di lampadine caleidoscopiche sugli edifici. “Peccato”, penso. Questo posto è così essenziale, pulito, ricco nei soli particolari da scoprire, che luci verdi e magenta hanno il solo effetto di renderlo finto, quasi un parco giochi senza giostre. Un po’ triste. Il panorama recupera la sua magia nei negozi di ombrelli dipinti, nelle cascate di seta con disegni di loto alle pareti. Quando infine la notte prende il suo posto, le vie sono fiori di lanterne sui prati di legno scuro degli edifici.
Anche questa Venezia, alla fine, cattura il mio cuore: le maschere del Carnevale si tessono nel cerone bianco delle attrici, le gondole si trasformano in lunghe barche piatte scolorite dal sole. Il mio treno del ritorno è un autobus verso SIP, sigla per Suzhou Industrial Park, dove edifici in vetro specchiato disegnano l’orizzonte e gli alberi, potati, stanno ai loro posti. È un treno nel tempo, in cui i chilometri si vestono di futuro.
Dove si trova Suzhou?
Francesca Perissinotto
Metà italiana e metà britannica, il mio primo volo aereo risale a quando avevo un mese di vita. Studentessa, nel tempo libero viaggio attraverso il palcoscenico, scrivendo di teatro.