La mia lettera a Charlie: recensendo Noi siamo infinito, di Stephen Chbosky
Creato il 26 dicembre 2013 da Mik_94
E
i libri che hai letto sono già stati letti da altre persone. E tutte
le canzoni che hai amato sono state ascoltate da altre persone. E la
ragazza che tu trovi carina è carina per altre persone. E ti rendi
conto che, se considerassi queste cose quando sei felice, ti
sentiresti alla grande, perché quella che stai descrivendo è
"l'armonia"
Titolo:
Noi siamo infinito – Ragazzo da parete
Autore:
Stephen Chbosky
Editore:
Sperling & Kupfer
Numero
di pagine: 272
Prezzo:
€ 16,90
Sinossi:
Fra un tema su Kerouac e uno sul
"Giovane Holden", tra una citazione da "L'attimo
fuggente" e una canzone degli Smiths, scorrono i giorni di un
adolescente per niente ordinario. L'ingresso nelle scuole superiori
lo lancia in un vortice di prime volte: la prima festa, la prima
rissa, il primo amore - per la bellissima ragazza con gli occhi verdi
che quando lo guarda fa tremare il mondo. Il primo bacio, e lei gli
dice: per te sono troppo grande, però possiamo essere amici. Per
compensare, Charlie trova una che non gli piace e parla troppo: a
sedici anni fa il primo sesso, e non sa neanche perché. Allora lui,
più portato alla riflessione che all'azione, affida emozioni,
trasgressioni e turbamenti a una lunga serie di lettere indirizzate a
un amico, al quale racconta ciò che vive, che sente, che ha intorno.
Dotato di un'innata gentilezza d'animo e di un dono speciale per la
poesia, il ragazzo è il confidente perfetto di tutti, quello che non
dimentica mai un compleanno, quello che non tradisce mai e poi mai un
segreto. Peccato che quello più grande, fosco e lontano, sia
nascosto proprio dentro di lui.
Il
mio voto: ★★★★★
Il
mio consiglio musicale: Heroes – David Bowie; Asleep - The Smiths
Caro
Charlie,
ti
scrivo. Non so ancora cosa, ma ti scrivo: tu stanne certo. Mi viene
in mente, in questo momento, una vecchia e malinconica canzone di
Lucio Dalla e, se non sapessi con certezza quasi matematica che tu
non l'hai mai ascoltata, be', allora te ne scriverei qualche rigo
qui. Per ricordati, magari, una bella canzone e un momento bello; una
canzone datata e un momento datato. Per tentare, ed inutilmente, di
creare la stessa complicità che c'era – tra te, Patrick e Sam –
quando, accucciati sui sedili posteriori della vostra macchina o
stravaccati su una poltrona mangiata dalle tarme e da cicche di
sigarette mai spente, parlavate degli Smiths e della vita, dei
Nirvana e dell'amore, dei Beatles e del futuro. Soprattutto, te la
scriverei per combattere il troppo bianco e riempire il troppo spazio
vuoto. Essenzialmente, per rompere il ghiaccio. Fior di metafora,
chiaro: è il venticinque Dicembre, ma il mio è stato un Natale
senza neve e senza sprechi, senza regali costosi e senza botti. Fa
caldo per essere pieno inverno e, seduto da solo al tavolo del
salotto, a sei minuti dalla mezzanotte, sto benissimo, anche se ho la
maglia del pigiama a rombi ficcata nei pantaloni, i calzettoni
sfilacciati tirati fin sopra ai polpacci e percezioni sballate di cui
faresti meglio, immagino, a non fidarti. Ci sono le pastorelle del
mio presepe, però, a testimoniare che si sta caldi. Sono andate a
ballare, pensa un po'.
Al muro non c'è una palla da discoteca tutta
luccicante, ma un poster dozzinale, e con le cicatrici incancellabili
del nastro adesivo, che dovrebbe rappresentare una piccola e innevata
Betlemme: uno sfondo di carta blu sotto cui, io e mio fratello, con
la solerzia che non avevamo da bambini e con la mancata immaginazione
che abbiamo perso da adolescenti, abbiamo sistemato foreste di
muschio più alte delle statuine stesse, capanna, mangiatoia e
immancabile Sacra Famiglia, completa di affettuosi animali domestici
al seguito – bue e asinello.
E le famose pastorelle, ovvio, che, prima che
i Re Magi arrivino a guastare i loro piani di giovani ribelli, con i
loro panieri di plastica, le loro pecorelle imbalsamate appresso e i
vestiti a fiori dipinti a mano, si scatenano. Le loro ombre si
spostano a scatti, sembrano ballare. Il telecomandino per regolare le
illuminazioni è sparito chissà dove, sotto la tovaglia lunga fino
al pavimento, e le lucine dorate arrampicate sul tetto della capanna
imbiancata da una neve che è di borotalco (è di borotalco
davvero, avevamo finito quella finta!) fanno il comodo loro. E'
l'anarchia. Si sono stabilizzate, adesso, su un motivo molto sobrio
che – facendole accendersi e spegnersi, facendelo fare tuz, tuz,
tuz... - ricorda una discoteca invasa da flash stroboscopici,
che, a loro volta, mi ricordano perché – perché, perché e
perché! - io detesti profondamente e sinceramente le discoteche.
Le pastorelle sono state al veglione di Natale, e io sono stato in
compagnia tua. Che mi hai parlato attraverso un libro. Qualcuno
direbbe che delle statuine inanimate hanno avuto una serata più
eccitante della mia, ma quel qualcuno è, tra tante cose brutte
brutte che non voglio dire con il bambino Gesù da poco in casa, un
vero bugiardo. Io non lo sono ed è per questo che ti rivelo due
cose: perché non sono un bugiardo e perché tu, Charlie, sei mio
amico. Numero uno: è stata Wikipedia a dirmi che Gesù è nato a
Betlemme e non a Nazaret; ma la colpa è tutta di Zeffirelli e di
quel suo film da titolo tremendamente ingannevole. Numero due: sempre
Wikipedia mi ha detto che Caro amico ti scrivo la
cantava Lucio Dalla e non Antonello Venditti, e capirai che per me è
stata una rivelazione. Ha riscritto la storia di questa lettera. Se
il pezzo che avevo in mente fosse stato di quell'incubo ambulante dai
vibrati caprini che ha segnato le notti in bianco di generazioni di
maturandi, non l'avrei nominato nemmeno di striscio e, di
conseguenza, non avrei avuto il mio inizio. Non fa una piega, no? E
poi tu sai che gli inizi sono la cosa più importante. Gli inizi e
gli arrivi. Ma io mi sono perso, in mezzo a queste ghirlande
sintetiche di pensieri ingarbugliati, e ho il presentimento che
potrei non arrivare mai. Ti ho conosciuto un anno fa: l'ultima notte
del mondo. I Maya lo avevano predetto, Giacobbo lo aveva scritto,
Mistero ne aveva
parlato e io, fino al giorno prima, c'avevo beatamente riso sopra.
Poi le luci avevano cominciato a tremolare, le porte a sbattere e il
cielo, fuori, a scatenarsi, con tuoni fragorosi e una conciliante
pioggia da Antico Testamento. Nell'ipotesi lontanissima che tutto si
fosse rivelato vero, avrei sprecato l'ultima sera vestito del mio
vecchio pigiama e delle mie nuove paranoie. Stupido.
Deprimente. La mia scelta,
allora, ricadde su un film in lingua originale, praticamente
sconosciuto, la cui uscita, in Italia, era prevista per l'anno
successivo. Avrei potuto vedere, almeno, uno spicchio di futuro. Si
chiamava The Perks of Being a Wallflower,
quel film, e parlava proprio di te. Ti piacciono i bei film e le
belle canzoni e qualcosa mi dice che anche il tuo film ti andrebbe a
genio. Ora respira. Niente panico. Cal-ma.
Sì, hanno violato un tantino la tua privacy, e sì, le tue lettere
non sono arrivate, alla fine, alla destinazione desiderata, ma io
voglio essere egoista e voglio urlarti, a squarciagola, che non
importa. Lunga vita ai postini inseguiti dai cani e alle buche delle
lettere invertite per errore, lunga vita ai disastri poco splendidi e
ai ritardi poco eleganti delle poste di tutto il pianeta Terra, lunga
vita a Stephen Chbosky, al suo cognome orribile e alle sue mani che
sanno fare miracoli. Lunga vita a te, amico mio. In tuo onore,
religiosamente, alzo la mia tazza di ceramica, manco fosse il Sacro
Graal, e mi schizzo tutto di camomilla. Bleah,
sembra pure pipì! Noi siamo infinito è
stata la mia storia da fine del mondo; sin dal primo istante, sin
dall'anno scorso. Quella che mi ha fatto compagnia, curando la
malattia più grave di cui il cuore di quel ragazzo sveglio nel mezzo
della notte potesse soffrire: la solitudine. Leggerti ha significato
scoprire una perla di inestimabile valore nascosta nella cassetta
delle lettere, tra le cartoline natalizie, i volantini dei discount a
buon mercato e gli immancabili opuscoli dei testimoni di Geova. Fare
un regalo a sé stessi, alla vita. E io mi ti sono regalato. Quando
ero arrabbiato con tutti, e non volevo incontrare nessuno di mia
conoscenza con cui scambiare chiacchiere piene di auguri e
d'ipocrisia, e avevo venti euro – nel portafoglio – e poco altro.
Quando ho capito che era arrivato il momento di venire a bussare alla
tua porta e di vederti lì, sull'uscio, calmo, sereno, con gli occhi
pieni di pace - perché ho sentito che sei uno che ascolta
e che capisce e perché, alle feste, non cerchi di portarti a letto
le persone, anche se potresti.
Chissà
che faccia avresti, chissà che faccia avrei, chissà che faccia
avremmo. Io sento che ti riconoscerei, anche se tu avessi un viso
diverso da quello del bravo Logan Lerman e la Sam accanto a te non
fosse quell'incanto di Emma Watson. E tu... tu mi riconosceresti? Io
ho un'idea assurda, un'idea fissa: lettera dopo lettera, ricordo dopo
ricordo, tu ti stavi rivolgendo a me. E per tutto il tempo. Io lo so.
Io ci spero. Perché tu scrivevi a me, giusto? Ho bisogno che tu mi
menta. Ho bisogno che tu mi dica di sì.
Perciò, anche se l'ultima
volta che ho scritto una lettera è stato per un tema di quinta
elementare, consegnato a un maestro di scuola decisamente meno
ispirato del tuo signor Anderson, io voglio inviarti una risposta. E
la cosa è stranissima, perché il Charlie di cui ho letto aveva
sedici anni e, all'inizio degli anni '90, cominciava il primo anno di
liceo. Ma il me stesso di adesso, che di anni ne ha quasi venti e il
liceo l'ha già finito a luglio, in quegli anni viveva giusto nella
mente dei suoi genitori e in “banchi” di disgustosi spermatozoi
tra cui, nella corsa più importante, alla fine, sono arrivato primo.
Sono più grande e più piccolo di te. Dunque, tu potresti
perfettamente essere il mio fratellino minore e, allo stesso tempo...
che ne so... mio padre, se, nei tuoi primi goffi e precoci approcci
sessuali sul divano rosso di Mary Elizabeth, non avessi usato le
giuste precauzioni. Ti saresti potuto ritrovare con la gonorrea, o
con un figlio della mia età a carico: addirittura con entrambe le
cose. Tuo nonno ti avrebbe insultato, i tuoi ti avrebbero messo in
punizione, tua sorella – in lacrime – avrebbe ricordato il
piccolo segreto tra voi e quella volta in cui dormì sotto un plaid,
sul sedile posteriore della tua macchina, Patrick avrebbe riso. Oh,
sì, Patrick avrebbe riso senza più smettere. Sam, invece, ti
avrebbe sorriso, confidando nelle tue doti di giovane padre e nel tuo
grande cuore di essere umano, immaginando, in silenzio, l'amore che
quel bambino avrebbe ricevuto e gli occhi che avrebbe avuto se quel
neonato fosse stato, in fondo, il vostro. Io ti avrei voluto come
compagno di banco, non come genitore: ci saremmo conosciuti in un
laboratorio di cuori solitari e ulcerati, anime affrante e orologi di
legno e, in una mensa piena di estranei, ci saremmo seduti nel tavolo
più isolato di tutti, io con i miei pensieri e tu con i tuoi. Senza
disturbarci, ma facendoci compagnia. Per il bisogno di sentirsi
vicini e di fare da tappezzeria, insieme. Entrambi con l'abitudine di
scrivere tanto e di parlare poco, di sedersi a ginocchia strette e
con le mani sempre in tasca, di non intervenire a lezione per paura
di attirare qualche attenzione di troppo, di cantare in playback con
le cuffiette premute nelle orecchie, di voler essere scrittori anche
senza una storia da scrivere, di trovare un'occasione buona per
vestirsi tutti eleganti, di andare a feste in cui fare da
reggimoccolo alle
coppiette innamorate di turno e stare seduti su un divano pieno di
gente che pomicia è il massimo dell'aspirazione. Seriamente. Tu sei
stato nella mia testa e io sono stato nella tua.
Hai rubato i miei
pensieri tristi e le mie ansie, i miei complessi di inferiorità e i
miei timori e, qualche volta, quelle tue parole messe così, nero su
bianco, facevano un rumore familiare, che ricordava quello dei miei
pensieri inespressi e delle mie emozioni difettose. Come se milioni
di telecamere a circuito chiuso, puntate nella mia piccola stanza e
sul mio piccolo mondo, avessero carpito le ingenuità, l'intensità e
la fragilità del mio sentirmi adolescente. Come se tu fossi me
stesso. Ci siamo voluti bene, Charlie. E tu mi hai insegnato a
volermi ancora bene, e meglio di prima. Nelle tue lettere c'ero io, insieme agli amici
folli ed altruisti che desidero da sempre, e all'amore che penserei,
un giorno, di meritare. C'erano sofferenze che ispiravano trionfi,
valori e sentimenti, musica, immagini, poesia vera. Grandi persone,
con dolori annessi, e grandi emozioni, con lacrime amare e sorrisi
aspri racchiusi nella stessa pagina. Io odio i punti esclamativi, ma
questa lettera dovrebbe esserne piena, per ricordarmi di tutte le
volte in cui mi hai fatto ridere di cuore, imbarazzare, alterare; per
ricordarmi quanto, quanto e
quanto ti abbia invidiato i baci
della delicata Sam, gli abbracci improvvisi del simpaticissimo
Patrick, la voce ruvida di David Bowie, percepita per la prima volta
nelle casse dell'autoradio, e quella sensazione di essere
eroi, anche se per un giorno soltanto. Con
il mondo ai tuoi piedi, le tue persone preferite accanto e l'infinito
ad un passo, alla fine del tunnel. Io odio anche i puntini di
sospensione, ma questa lettera dovrebbe essere piena zeppa anche di
quelli lì, per le mille volte in cui mi hai lasciato affranto e svuotato.
Tra l'altro, io odio ancora di più le pubbliche manifestazioni
d'affetto, ma credimi quando dico che ho voluto più bene a te, per
un giorno, che ai miei parenti, per tutta la vita. E adesso non
vorrei lasciarti andare più via. Insieme alla tua storia, il mio
libraio mi ha dato un taccuino verde pieno di adesivi, con frasi che
non avresti mai immaginato, da giovane, potessero rappresentare tanti
ragazzi da parete come
noi. Ho provato a scrivere questa stramba lettera sul taccuino, ma con una di
quelle penne cancellabili delle elementari, che pensavo francamente
non avrei usato più in questa vita. L'ho usata eccome, invece. Ho
cancellato tutto quello che avevo buttato giù. Da ordinata e
tondeggiante, la mia grafia sarebbe diventata obesa, insolente,
indisciplinata. Voleva evitare di raccontare la cronaca del nostro
inevitabile addio;
diventare qualcosa che è simile all'infinito verso cui, ti prometto,
mirerò. Ma, come diresti tu, suppongo sia OK. Suppongo sia tutto.
Smetto di scriverti che è ormai un nuovo giorno. La camomilla è
fredda; il mio stomaco brontola; i miei occhi si chiudono,
stanchissimi. Stacco le luci psichedeliche del mio presepe e l'ombra
danzerina delle pastorelle muore, nel buio. Alla prossima festa,
ballerò io. Lo giuro.
Sempre
con affetto,
M.
25/12/2013
Potrebbero interessarti anche :