La mia prima volta a Twickenham, il tempio del rugby

Da Eraniapinnera @EraniaPinnera

Ogni appassionato di rugby, almeno una volta nella vita, dovrebbe entrare a Twickenham quando non c’è nessuno. Il silenzio è talmente irreale che ti sembra di sentire l’eco di ‘Swing Low, Sweet Chariot lo stesso. Come se lo cantassero i seggiolini vuoti.

Sono rimasta dentro lo stadio, con un’altra mezza dozzina di persone, a guardare gli spalti vuoti, il cielo grigio di Londra che faceva capolino dalle coperture dello stadio, il manto verde e glorioso, che tanti campioni hanno calpestato dal 1907. Abbiamo atteso in silenzio che gli All Blacks entrassero in campo per il Captain’s Run, l’ultimo allenamento prima della partita. La squadra più forte di sempre nello stadio più bello di sempre: questo è quello che alcuni ragazzi dicevano sull’autobus, commentando la cronaca sportiva dell’Evening Standard. Si sono presentati solo i calciatori kiwi, i più sensibili alla terra, al vento e all’erba. Hanno provato calci di spostamento, drop e piazzati, come da copione. Nel chiacchiericcio sommesso del piccolo pubblico raccolto a mezzo metro dal campo, i tonfi dell’impatto del pallone con i piedi esplodevano, spezzando l’aria.

Ho incontrato Dan Carter, il numero 10 più forte del mondo, e poi ho incontrato Aaron Cruden, il giocatore più forte del mondo. Avevo già parlato di lui (e il Corriere della Sera ha ripreso il mio articolo), e mi piacerebbe parlarne ancora, perché un ragazzo che vince la morte e diventa un All Blacks è un vero campione e un esempio per tutti noi, che a volte dimentichiamo quanto sia preziosa la vita, e quanto sia potente la forza di volontà dell’essere umano. Aaron è piccolo di statura, rispetto ai suoi compagni, ma basta guardarlo dritto nei suoi occhi vivaci per capire quanto sia grande, in realtà. Parlare con lui è stato ‘inspiring’, come dicono gli anglofoni. Noi diremmo che Cruden è un tipo carismatico. E non lo si evince solo dal sorriso.

E poi c’è Twickenham il sabato mattina, quando la strada diventa un fiume di persone bianche e rosse, e di casette che si trasformano in chioschetti di hot dog, ciambelle e birra. Mi avevano detto che mi sarei persa, nel labirinto dello stadio. E invece ho subito trovato sala stampa e tribuna, e una buona zuppa di carote e coriandolo, per riscaldarmi. D’altronde, fuori ci sono due gradi.

Il tempio del rugby ha un’anima che va ben oltre il tifo da stadio: lo si sente quando intona a una voce sola ‘God Save The Queen’, o quando l’arbitro fischia la fine della partita, decretando la discesa sulla terra degli Dei del rugby, gli All Blacks, battuti da una Inghilterra maestosa e dura. E non vi deve sembrare strano che gli dei cadano in un tempio, perché Twickenham, più di altri stadi, è davvero il sedicesimo giocatore in campo con i Leoni inglesi.

Il fiume di persone, fuori Twickenham, è diventato un fiume in festa. Sul treno giovani e anziani intonano ‘Swing Low, Sweet Chariot’, e la mia carrozza diventa un auditorium. Un signore chiede a tutti di dire una battuta sulla partita, anche a chi è finito per sbaglio sul treno, e la partita non l’ha vista. Quando è arrivato il mio turno, ho detto solo che io tifavo All Blacks. E si sono messi tutti a ridere, ma non stavo scherzando.

Quando entri a Twickenham la prima volta, ti sembra di non aver mai conosciuto il rugby prima di quel momento. E quando esci da Twickenham, pensi subito a quando ci ritornerai. Perché non vedi l’ora di tornarci.


Every rugby enthusiast, once in his lifetime, should enter in an empty Twickenham. The silence is so unreal that you can hear the ‘Swing Low, Sweet Chariot’ echo, just like the empty seats are singing it.

Continue reading on Huffington Post UK, “My First Time at Twickenham Stadium”

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