La mia vita senza smartphone

Da Siboney2046 @siboney2046

Ebbene sì, al tramonto del 2013 confesso di far parte di quella sparuta minoranza di under settanta che non possiede ancora uno smartphone! Non che sia immune al fascino della tecnologia o che di principio rifiuti l’avvicendarsi della modernità, semplicemente ho una cattiva abitudine invisa al sistema consumistico, quella di non acquistare una cosa finché l’analoga in mio possesso non si sia rotta e dal lontano 2008 il mio fedele Nokia N70 non ha ancora accusato il colpo! Non dico che mai cederò alla diavoleria forse più sorprendente del nuovo secolo, anzi, probabilmente dopo questo post, per l’inesorabile legge di Murphy, il mio cellulare collasserà in qualche maniera assurda obbligandomi a mettermi al passo con i tempi. Ammetto che fare parte di quell’élite di sumeri che usa ancora i tasti e non il touchscreen mi fa sentire un po’ speciale, démodé forse, ma al contempo affascinante.

Devo dire che non sento una grave assenza nella mia vita: il fatto di non possedere uno smartphone ha certamente dei lati negativi, come l’elevato tasso di probabilità di perdermi in qualche sconosciuta località senza avere la possibilità di ricorrere al salvifico Google Maps (no, non ho neanche il navigatore, ma questo è dovuto al fatto che così mi sento più forte ed indipendente: prendo le mie decisioni senza una voce guida!), eppure questa mancanza ha anche dei preziosi vantaggi che sicuramente non tutti si sentiranno di condividere ma che per me rappresentano l’ultimo baluardo di libertà intellettuale.
Innanzitutto non sento l’esigenza di condividere ogni mio stato mentale – o, peggio, fisico – su tutti i social network esistenti: Facebook per me resta uno spazio dove farmi due risate con i link idioti; devo ancora entrare nell’ottica di considerare Twitter uno sfogatoio senza filtri, per cui non ho ancora ingaggiato furibonde diatribe verbali con sconosciuti; non ho mai l’impulso di postare su Instagram ogni mio banale pasto quotidiano, confidando nel fatto che, bene o male, tutti hanno fatto colazione con un cappuccino ed una brioche, perciò dubito che il mio contributo fotografico potrebbe far fare all’umanità quel famoso grande balzo.

Quando mi viene qualche amletico dubbio su un personaggio, un film, un evento, un titolo, non ricorro spasmodicamente a Google ma cerco di spremere le povere meningi che mi restano per estrarre qualche preziosa goccia di conoscenza e se ciò non avviene, me ne faccio una ragione e mi tengo il dubbio fino all’estatico momento della folgorazione.
Se mi trovo in compagnia non ho certo la tentazione di prendere il cellulare per fare qualcosa, qualsiasi cosa, ma mi godo la presenza delle persone, con le loro chiacchiere ed i loro silenzi. Il cellulare per me è ancora semplicemente un obsoleto mezzo di comunicazione, ma limitatamente a quando il mio interlocutore è a distanza, poi, quando lo vedo, il telefono resta in borsa e la comunicazione è fatta non più di lettere digitate ma di parole, gesti, sguardi, risate, quelle vere.
Non sono continuamente bersagliata da notifiche su tutto quello che fanno i miei contatti e di conseguenza loro non sanno sempre cosa faccio, con chi e dove. Tutto ciò esercita su di me una sublime seduzione, un intrigante brivido, un’appagante soddisfazione che chiamo privacy.

L’aspetto che tuttavia amo di più è che nei momenti morti, durante le interminabili attese in qualche coda, nei fugaci istanti in cui aspetto qualcuno, non occupo – o forse spreco – il mio tempo sfidando qualcuno in un moderno tenzone virtuale a colpi di parole o caramelle ma semplicemente apro un libro e leggo.

«Talvolta penso che il paradiso sia leggere continuamente, senza fine»
(Virginia Wolf)


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