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La Milano di Kung. I monumenti della città come oggetti di icastica urbana

Creato il 07 settembre 2013 da Emercatali

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La Milano  di  Kung. I monumenti della città come oggetti di icastica urbanadiKung
 I  monumenti  della  città  come  oggetti  di  icastica  urbana
La Milano  di  Kung. I monumenti della città come oggetti di icastica urbana
Il Duomo
Duomo e Galleria, tradizionalmente noti come i due pezzi forti del non ingente turismo milanese, primi monumenti visitati da chi viene a Milano per la prima volta, in visita fuggevole e quasi per dovere, sono colti dall'obbiettivo della camera kunghiana come ieratiche tipologie architettoniche, vagamente memori della statica lezione "Fratelli Alinari", nel vuoto assoluto dei loro spazi circostanti, ma ancor più iconiche di quelle, ripresi come sono attraverso quel filtro di tonalità irreali e cromaticamente fuorvianti. Il Duomo traspare dall'impalpabile trama di un sogno, come una Chathédral Engloutie, quasi ricoperta d'alghe verdognole, anzichè bianca come la luce del sole, o vagamente rosata come nella realtà del suo marmo di provenienza candogliana (Ossola - Lago Maggiore). E' una trasfigurazione totale, quella compiuta dalla visione dell'autrice, tendente perfino a mixare il senso stesso dei luoghi, con le riminiscenze degli altri che hanno trapassato le lenti dei suoi obbiettivi, Milano come Cina, New York come Dubai, il cairo come Londra o Istambul? Perchè allora ci siamo tento interessati alla sua fotografia, alla sua arte che, da miolanesi quali siamo, amiamo di Milano soprattutto l'aura fine che la muove e che ne scolpisce forte la personalissima fisionomia? Perchè, dell'ampio ventaglio offeryto dalla fotografia monimentale kunghiana, abbiamo voluto fare una specifica selezione della sua produzione milanese, quasi fosse un unicum? Per rispondere a tali quesiti dobbiamo anche almeno in parte dare ragione del nostro modo di vedere e sentire l'intrinseca "milanesità" di questi monumenti. Riteniamo interpretativamente esatto fare, come Kung fa, concepire il monumento come individuo avulso dal suo ambiente, distaccandolo dalla contemporaneità che lo divora, per vederlo avvolto in una peculiare condizione che lo astrae dal suo contesto, forse così potenziandone il senso, per elevarlo ad un ruolo superiore, così collegandolo più ancora agli altri monumenti del mondo, che con esso parlano una lingua tutta speciale, loro propria, di autonoma specie.
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 La Galleria
I monumenti architettonici della città, nelle mani di Irene Kung, diventano segnali di storia urbana, carichi di carismatica autorevolezza. Nell'identificazione dei cardini urbani significativi Irene, nel porli, dopo averli selezionati, nella loro teca di oggetti speciali, ne riscatta le singole differenti e specifiche storie, quasi estraendole dal luogo che le ha generate, portandole ad una dimensione nobilitata, eterna, primigenia, la cui ieratica iconicità diventa sigla del suo modo di ritrarre, non tanto approfondendo un senso già in nuce, sotto la pelle d'ogni singolo caso, ma attribuendovi un generico proprio senso che rende "aperto", e forse ancora più intenso, il suo significato, posto che ciascuno che vi si provi ad utilizzarlo, o che semplicemente vi si imbatta, possa attribuirvene uno suo, leggendovi una storia che lo renda suo.
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La Torre Velasca
La Torre Velasca (architetti BBPR, 1950) è monumento milanesissimo, assai più di tanti altri che pure Irene ha scelto per farne le sue foto. Esso è già una icona nel mondo, così come lo sono il Duomo, la Galleria, la Scala. La sua sola sagoma evoca Milano a chiunque la vede pubbliacata, come accade per gli altri suoi monumenti più famosi. E pure, se così rappresentata come ha fatto l'autrice (qui davvero di notte, come segnalano le sue finestre illuminate), essa assume una ancora maggiore carica iconica, potenziandosi come simbolo forte della città, e così anche come simbolo forte dell'architettura moderna.  
E' quuesto allora un grosso contributo che la fotografias di Irene Kung dà all'idea di opera aperta, una idea molto di moda negli anni '60 e poi decaduta assieme a tutti i rivoli della post-modernità: una idea che invece emerge vigorosa nei bisogni che dell'arte si annoverano oggi, in cui tutto è arte se pensata come tale, e come tale adeguatamente sottolineata, e collocata per valorizzarne l'essenza. Un'idea, questa, che è intrinseca alla Grande Arte, la quale mai potrà essere espressa se non in forma aperta, e quindi olisticamente multisignificante. Ecco, ciò che da tempo mi ha attratto dell'arte kunghiana sta proprio in questa sua necessità di creare archetipi necessariamente votati all'interpretazione individuale. Il suo chiudersi nell'archetipo, mentre viene prodotta la sua riproduzione, rapporesenta in definitiva il suo modo di aprirsi all'interpretazione differenziata, facendosi opera collettiva.  
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 La Scala
La facciata del teatro alla Scala (Giuseppe Piermarini, 1776) non è un simbolo forte dell'Architettura (come lo è invece il Teatro come Istituzione), come lo è invece la Torre Velasca, ed anche la facciata dello stesso Duomo. Essa è meno riconoscibile ad un occhio poco esperto. E' però bellissima, e affascinante, frutto di una composizione di equilibri e misure delicatissime e perfette. Accade spesso che i "non addetti ai lavori" poco comprendano perchè il teatro alla Scala sia certamente più bello del suo concorrente parigino dell'Opéra Garnier (charles garnier, 1923); ad essi il secondo appare "grandioso", e quindi più apprezzabile, rispetto al teatro milanese, certamente più minuto nelle dimensioni. Ma non è la dimensione che fa l'Arte. Irene Kung, ne ha colto la semplice perfezione, e l'ha indelebilmente fissata col suo inconfondibile stile, ad una città che, in fatto di qualità, sa il fatto suo.
Ciò che queste fotografie milanesi, selezionate dall'ampio catalogo fotografico di Irene Kung, scattate in giro per il mondo, il più delle volte proprio in luce diurna, ma pur sempre elaborate al computer dall'autrice in fase di prestampa tanto da farle apparire "notturne", hanno suscitato in me quando le ho guardate il perfetto coagularsi di precise sensazioni, mie personali sensazioni scaturite forse proprio dal loro essere neutre, impassibilmente neutre, propositivamente disponibili ad interagire. 
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La Stazione Centrale
La Stazione Centrale di Milano (Ulisse Stacchini, 1911), non è una bella architettura, notoriamente e a detta di tutti. Solo Franco Maria Ricci ne seppe cogliere, in uno dei numeri della sua prestigiosa rivista FMR, un forte interesse iconografico, nei suoi numerosi dettagli deco, interesse generalmente negletto dai più, poco conosciuto, ed ancor più scarsamente pubblicato. L'edificio è testimone di un periodo, il passaggio tra il vecchio e il nuovo secolo, nel quale poco ancora si sapeva scegliere tra vecchio e nuovo, e l'architettura moderna non s'era ancora pienamente affermata. Milano allora scelse il Vecchio, mentre invece ad esempio Firenze scelse il Nuovo (G. Michelucci, 1929). Ma nonostante la sua indiscutibile bruttezza la Stazione è ugualmente amata dai milanesi, che mai e poi mai la sostituirebbero con un'altra. Anche in questo caso l'autrice della fotografia ha colto quanto ne caratterizza l'assieme, ovvero soltanto ciò che di essa i milanesi vedono e riconoscono (e non certo i suoi dettagli deco, che sono "roba da cultori maniacali").
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Torre Cesar Pelli
La recentissima torre "Pelli", come già ora viene chiamata dai milanesi, dal nome del suo autore l'architetto statunitense Cesar Pelli, 2009-2011, coi suoi 231 metri di altezza è il grattacielo più alto d'Italia. I milanesi nel vederla terminata si sono sconcertati, e da essa, ora che stanno cercando di digerirla,  sono un poco intimoriti. C'è qualcosa di assai poco milanese in quel "missile pronto a partire per la luna", e la sua stessa sistemazione urbanistica alla base scoraggia l'avvicinamento più che alimentarlo. Essi non hanno torto: quel grattacielo, pur ardito e svettante, stava meglio a New York, o a Dubai, piuttosto che nel capoluogo meneghino, esso ha sconvolto lo skyline della città ed ogni prospettiva storica che lo vede nello sfondo ne viene "disturbata". E' una prodotto della globalizzazione, mentre Milano ha sempre preferito cose nate, create "entro il suo contesto", entro il perimetro della sua pur ampia cultura, quando per contesto non si devono intendere i riti della "Milano da bere"combinati entro e solo quei soliti salotti, ma nella Milano della cultura e dell'industria, delle gallerie e delle librerie, dell'architettura e del design, dei circoli intellettuali e della moda, ove è il lavoro e non solo  l'affare in sè stesso a muovere il motore.

Ci piacerebbe vedere, della Kung, un Grattacielo Pirelli, un Monte Amiata, un Palazzo della Triennale, una Torre Littoria, una Ca'Brutta...
Grazie Irene Kung
Enrico Mercatali 
Milano, 7 settembre 2013 

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