Partivamo dal villaggio di Obaid, con Brien e alcuni beduini locali, e ci spingevamo spesso a esplorare gli altipiani desertici e le pianure sassose che dai territory delle comunità di Showkah e Khadrah nell’Emirato di Ras al Khaimah fino alle pendici oriental del Jebel Hafit, presso Al Ain, nell’Emirato di Abu Dhabi. In queste aree tra deserto e montagne ci imbattevamo spesso in pile di pietre, i sassi sono una materia prima di cui questi canyons sono molto ricchi. Trovavamo spesso questi segnali, cumuli di sassi con una pietra speciale sopra, agli incroci tra sentieri o dove la direzione da seguire non era così ovvia. Presto imparammo a interpretarli, a capire quando significavano che bisognava abbandonare la pista e scendere nel canyon per risalire dall’altra parte, o quando la direzione del sentiero stava per cambiare. A volte invece semplicemente confermavano che si andava nella buona direzione, oppure segnalavano pericoli nascosti come una buca, un’improvviso cedimento del sentiero o punti notevoli come i picchi e le cime delle montagne. La maggior parte delle pile di pietre erano relativamente piccole, alte si e no una trentina di centimetri ma qualche volta erano più alte, quando serviva fossero ben visibili anche da lontano. I viaggiatori di passaggio spesso aggiungevamo una pietra e così contribuivano alla manutenzione della segnaletica del deserto, per contrastare l’erosione della natura e del tempo.
Nella penisola Arabica gli uomini hanno costruito cumuli di pietre per millenni, in alcuni casi per ragioni chiare, altre volte per motivi misteriosi. Ammassare pietre piccole e grandi è stata un’attività che ha occupato questi uomini per millenni per costruire case, muri, ripari o recinti per animali, per ripulire aree che poi sarebbero diventate villaggi o campi da coltivare. Sapevamo che nelle pendici desertiche della vicina Giordania erano ancora visibili le tracce di quando nella notte dei tempi i beduini costruivano con le pietre enormi aquiloni sulla superficie del deserto, complessi sistemi di corridoi e recinti che servivano per catturare asini selvatici o intercettare gazelle e ibis nelle loro migrazioni: la selvaggina veniva intrappolata e spinta fino in fondo, per essere macellata nel recinto finale. Altre volte cumuli di pietre venivamo ammassati come tributi ai morti o a memoria di important eventi. Molti dei resti nei quali ci imbattemmo durante le nostre esplorazioni erano facilmente interpretabili ma alcune volte il significato di quegli ammassi rimase estremamente misterioso.
In un’area a una decina di chilometri dal villaggio trovammo degli strani piccoli mucchietti di sassi ormai quasi affondati nella terra friabile dell’altopiano, li rivelavano le loro ombre sottili in rilievo sulla superficie del deserto quando la luce si abbassava di taglio poco prima del tramonto. I più numerosi erano piccoli ammassi di pietre di circa mezzo metro di diametro, mucchietti bassi di un centinaio di pietre tutte di dimensioni simili, molti di loro danneggiati o semiaffondati nella terra friabile dell’altopiano tanto che li revelava solo la loro ombra sottile che li faceva in rilievo sulla superficie del deserto contra la luce bassa di taglio poco prima del tramonto. Poco discosto invece le pietre sembravano sistemate a formare motive precisi, forse rettangoli, line curve, line parallele e altre forme geometriche. A diverse decine di metri dai mucchi di sassi che stavamo osservando, in fondo alla valletta scorgemmo alcune pile che sembravano composte da pietre più grandi, dai bordi piatti, disposte a formare un grosso angolo. Lì terminavano tutte le tracce delle pietre semisommerse. Perlustrammo tutta la zona in lungo e in largo e rimanemmo perplessi cercando di capire cosa tutte quelle pietre stessero a fare laggiù in quella valletta remota tra le montagne. La piccolo pianura si trovava allo sbocco di un wadi ed era quindi una zona esposta a pioggie e inondazioni che erodevano il suolo lasciando canyon piccoli e grandi nei pressi della zone dove si trovavano le pietre. Il vento, l’acqua, i terremoti avrebbero potuto muovere i sassi, spostarli in strane posizioni ma raramente la natura arriva ad allineare e impilare pietre una sull’altra con quella regolarità, a decine e centinaia nello stesso posto.
Erano disposizioni regolari di sassi ma in alcuni punti molte pietre sembravano mancanti, si notavano ancora gli incavi delle forme lasciate dai sassi nel terreno. Pensammo che quelle pietre potevano essere state smanetellate dai beduini del luogo e rivendute ai cantieri. Nei primi anni settanta la domanda di pietrisco per la costruzione delle strade era altissima e il boom edilizio nella penisola esplose sulla fame atavica che da sempre aveva regnato sui villaggi di queste montagne. Per il resto non si notava nessun altro segno di erosione, i soli danni sembravano dovuti a sporadici passaggi di animali o di veicoli e sembravano risalire a tempi piuttosto recenti. Per molti anni mandrie di alti cammelli sono state allevate lungo queste pianure sassose, diverse fattorie erano sorte relativamente poco distante da queste pile di sassi e anche se la maggior parte di queste erano ormai state abbandonate, in epoche recenti erano decisamente attive e sicuramente gli animali si potebano facilmente essere spinti fin qui. I danni provocati dagli animali e dai veicoli erano visibili e sembravano in qualche modo continuare ancor oggi, probabilmente provocati dagli asini selvatici o dai fuoristrada di pattuglie militari e di polizia che controllavano I territori di confine.
Una decina di metri più a nord trovammo frammenti di ossa. Non è particolarmente raro trovare delle ossa nel deserto e in queste pianure sassose, generalmente sono resti di di qualche accampamento passato, ossa di qualche animale: i cammelli, asini selvatici, grandi lucertole, capre o galline. Ma questi due frammenti erano particolari, non trovammo nessun altro osso nelle vicinanze che potesse farci risalire a un animale o a un pasto e nemmeno trovammo segni di accampamenti nelle vicinanze, il solo segno di vita umana erano quelle strane pietre disposte su più righe in fila indiana. In questi luoghi, dall’età del ferro fino all’alba del secolo scorso, la vita è stata estremamente dura, una vita mirata alla pura sopravvivenza dentro questa natura feroce. I popoli che hanno abitato queste montagne dovevano dedicare tutto il loro tempo a gestire la scarsa acqua, convogliandola in complessi sistemi di canali, a seguire le semine e i raccolti, allevare sparute mandrie di bestiame e dedicarsi alla caccia e alla raccolta. Non serve risalire a moltissimi anni addietro: i più anziani tra questi beduini delle montagne raccontano ancora di quando queste piccole comunità raccolte intorno alle oasi di montagna si rifugiavano nelle antiche miniere e fuggivano a nascondersi nelle caverne quando dall’alto vedevano i predoni del deserto risalire i wadi arrivavano per razziare I villaggi in cerca di cibo. Quegli anziani avranno avuto al massimo una sessantina di anni e raccontavano le storie della loro infanzia. Tutto questo accadeva in queste comunità quando il ventesimo secolo era ormai ben inoltrato.
Alcuni abitanti del villlaggio raccontavano che quei disegni di pietre stavano là da moltissimo tempo, altri invece mostravano di non essere nemmeno a conoscenza di cosa ci fosse in quella valletta nascosta. Mi è rimasta solo una foto presa da molto lontano. Nell’angolo in alto a destra si vede una specie di piccola cupola di pietre. Vicino, una pista appena accennata continua verso sud e passa quasi al limitare dell’area delle altre pietre. Alcune sono appena visibili a ovest della cupola, altre più piccole continuano immediatamente a sud. Erano piccole pietre, grandi poco più di un pugno, allineate o impilate a disegnare forme. In fondo alla valletta, sulla destra - o verso sudovest, se vogliamo essere più precisi – erano disegnate dodici line parallele, le prime leggermente curve poi via via ci si avvicinava al limite occidentale sempre più diritte. Centinaia di piccoli mucchietti minori stavano appena più a ovest. In alcuni punti la superfice delle pietre era chiarissima, quasi bianca, e indicava chiaramente un’attività recente. Cercammo meglio e scoprimmo che quelle pietre erano state spostate dai dhubs, le grosse lucertole dalla coda spinosa che popolavano questi deserti di sassi e che costruivano lì le loro tane. In effetti in quei punti dove era stata smossa, la sabbia fine del deserto appariva più chiara e luminosa.
Poi iniziammo a capire che i punti segnati dalle pietre erano spaziati regolarmente e congiungevano presumibilmente quattro forme ad angolo retto. Due di queste erano ancora ben evidenti, la prima l’avevamo già notata in precedenza. La terza, dallo stesso lato della prima, era stata completamente rimossa ed erano rimasti solo gli incavi che avevano attirato la nostra attenzione poco prima. Del quarto angolo invece non era rimasta alcuna traccia, la sua esistenza si poteva solo desumere dalla posizione di tutte le altre pietre. A quel punto non ci fu troppo difficile congiungere tutti quei punti sul terreno e nelle nostre teste: diversi decennia addietro quell’area e i suoi pressi erano stati utilizzati come base militare e quelli che ci sembravano disegni di angoli erano in effetti veri e propri angoli. Gli angoli di un’antica pista di atterraggio: ci trovavamo in mezzo ai resti di un vecchio posto di aviazione militare dda tempo abbandonato tra le montagne.
Alcuni anziani ex piloti di aerie attivi in quell’area negli anni cinquanta ci confermarono più tardi che in quella zona fu in funzione una pista di atterraggio che serviva agli ufficiali di stanza a Showkah tra il 1957 e il 1959, durante la Guerra del Jebel Akhdar. Venimmo così a sapere di diverse piste di atterraggio nella regione, compresa quella vicino a Showkah ma non incontrammo nessuno ci raccontò di averla mai effettivamente usata. Dopotutto posizionare una pista laggiù era una scelta abbastanza logica visto che Showkah era da sempre una zona nevralgica perchè da li passava l’unica strada che dalla montagna, con le sue preziose fonti di acqua dolce, scendeva giù fino ai villaggi di pescatori della costa fino alle ricche città della costa, a Sharjah e a Dubai.
(Ringraziamenti: a Brien Holmes per l'ispirazione, per i dettagli tecnici sulle pietre, per la scoperta della pista e ultima ma non meno importante per la fotografia)
Una storia di antiche rivalità tra tribù beduine, tra Sultano e Iman, tra Musqat e Nizwa, rinata per diritti di sfruttamento di concessioni petrolifere e ormai finita male per l'Imanato, con i ribelli che erano scampati ed avevano trovato rifugio finale sulle pendici imperzie del Jebel Akhdar. Una notte di quel 1959, due squadroni del Reggimenti Speciali dell'Areonautica Inglese, dopo aver finto delle operazioni militari contro le posizioni di difesa dei ribelli sul versante nord, risalirono nel buio la facciata sud prendendo i ribelli di sorpresa. Quell'alba, quando le truppe inglesi raggiunsero l'altopiano delle rose, alcuni lanci di materiali di supporto dal cielo probabilmente avrà fatto pensare a che gli invasori erano protetti dai jinn, o a un attacco di paracadutisti dal cielo. I combattimenti furono brevi, in quella notte morireono un centinaio di persone, Talib e i suoi riuscirono a fuggire mescolandosi alla popolazione locale, l'Imam Ghalib venne esiliato in Arabia Saudita, il trattato di Seeb terminato, l'Imanato Autonomo dell'Oman venne abolito e un'era della storia di queste montagne terminò.