“Rubens osserva il grande ovale del parco. In quel momento gli sembra una metafora della vita. Correre in tondo, un giro dietro l’altro. Questo è il senso. Anche se non sai qual è la misura del giro che ti aspetta.”
LA MISURA DEL GIRO, il mio racconto per l’antologia NERO PER N9VE che verrà presentata in anteprima Domenica 11 al Salone del Libro di Torino prende ispirazione da un luogo reale, noto come “Il Circolo” e ben conosciuto in tutto il vicentino. E’ il parco che vedete nella mappa qui sopra, un ovale di erba circondato da ippocastani secolari e da una pista di ghiaino che corre tutto attorno. Anche la foto per la copertina di NON TI SVEGLIARE è stata scattata lì, ma quella è tutta un’altra storia.
LA MISURA DEL GIRO inizia con il protagonista (il “mio” avvocato penalista Rubens Gatto) che entra nel parco, dopo un lungo periodo di assenza forzata da quel luogo. Ha un paio di scarpe da corsa nuove, comprate d’impulso e deve prendere una decisione terribile. Giro dopo giro una serie di flashback ricostruiscono la vicenda che lo ha portato fin lì, una terrificante storia di amore e sangue. Inizia così:
“Ecco, è dentro le sue Gelkaiano. Chiude l’auto e infila le chiavi nella tasca dei pantaloncini, quella dietro con la zip, dove non danno fastidio quando ti muovi. Srotola il cavo delle cuffiette e richiama l’App sullo smartphone. La massa degli alberi si staglia innanzi a lui, incombente come un cumulonembo, le fronde immobili contro un cielo latteo di afa. Da lì il mormorio delle cicale è un ringhio minaccioso, carico di una ferocia che sembra tentare di dissuaderlo. Osserva il display del telefono, il battito lampeggia in rosso, su valori doppi rispetto a quelli che può reggere il suo cuore. Si inumidisce un dito, lo passa sotto la fascia cardio e sistema l’elastico sul petto. Il battito sparisce, ritorna, si assesta su un valore da quarantenne quasi in forma. Bene. Attende davanti alle strisce pedonali che qualcuno si decida a farlo passare. Stridio di freni, ringrazia con un cenno, attraversa e arriva al cancello color ruggine, aperto come sempre. Passa sotto un piccolo architrave triangolare, gli ricorda il timpano di un tempio greco. Una reminiscenza che arriva da chissà dove, forse dal liceo, sì storia dell’arte con quella professoressa e i suoi foulard multicolori. Mille anni prima, ma lo trova appropriato. È l’ingresso a un luogo a suo modo consacrato. Un posto dove tornare in contatto con l’essenza delle cose. Faticare sotto il sole, non pensare a nulla, lasciarsi alle spalle il resto.
E ripensare ai propri errori.”