La prima problematica che si presenta nel leggere La Morte del Tempo di Giancarlo Petrella è proprio la sua varietà di forme e contenuti. In tale opera sono presenti molte forme stilistiche particolari, dal sonetto alle quartine, dalla prosa poetica alle riflessioni squisitamente teoretiche speculative ed altre ancora; e, in aggiunta, vi sono moltissimi temi: l’amore, il tempo, la giovinezza, l’eternità, l’arte, la malinconia. Pertanto una lettura generale e approssimativa risulta essere veramente difficile. La domanda che subito sorge spontanea è: “qual è il tema, il fondo di questo testo”. Una lettura unilaterale, a nostro avviso, è impossibile, non solo per l’eterogeneità, che come vedremo è apparente, del testo, quanto per la sua complessità organica e speculativa. Di speculazioni infatti si tratta; essa è, prima di essere un’opera poetica, un’opera riflessiva, un’opera che tenta di asserire qualcosa di filosofico sul tempo e sull’eternità, come il titolo affascinante indica.
I vari canti che compongono il testo, aventi molte forme stilistiche diverse, non costituiscono una raccolta eterogenea di liriche, ma precisamente una ‘cantica’ di un poema, come l’Autore stesso indica a più riprese nel testo stesso. È probabile, dunque, che le scelte stilistiche accompagnino i contenuti che di volta in volta si presentano; contenuti che seguono, a loro volta, un disegno ben preciso: comprendere le potenzialità dell’immaginazione. Tutto il viaggio – simbolico? – che viene narrato non è altro che la continua evocazione di paesaggi, sensazioni, pensieri provenienti da un ‘occhio’ che desidera vedere ciò di cui esso è capace; una sorta di rievocazione idealistica ove l’Io desidera comprendere se stesso come garante del mondo circostante.
Di sicuro le riflessioni dell’Autore si collocano in un’epoca post-nietzschiana, come è giusto che sia. La morte di Dio, l’inesistenza di un ordine morale del mondo, il primato dell’egoismo sulle virtù umane, la tracotanza di forze sono temi sempre presenti nella sua opera, pur se indirettamente mai trattati esplicitamente; l’Autore dà ‘per scontato’ che il lettore abbia raggiunto una certa maestria con tali problematiche. Che questo sia in qualche modo un limite dell’opera, ovvero dare per scontate alcune premesse, credo a mio avviso non possa non essere un enorme fraintendimento; non solo perché ogni opera deve sempre qualcosa ‘agli antichi’, ma più precisamente in quanto l’autore abbisogna di tali presupposti per introdurre le proprie tematiche.
Sostenere che questo viaggio, compiuto dalla voce narrante, sia un viaggio introspettivo è delimitativo ed un fraintendimento. Delimitativo in quanto si cerca di trovare una lettura unilaterale che non può esservi. Ed è un fraintendimento poiché non v’è un’analisi della psiche umana: non vi sono riflessioni sugli stati d’animi che man mano appaiono. I sentimenti, le emozioni, si presentano come accompagnate dai paesaggi, da delle riflessioni (non inerenti ad esse), per ciò non è possibile parlare di analisi introspettiva, riflessioni e descrizioni servono a dipingere lo sfondo con cui tali stati d’animi affiorano in superficie con veemenza, con impeto – ma senza cadere nel patetico o in un romanticismo ‘datato’. – Le emozioni sono, in qualche modo, i veri protagonisti ma si presentano al lettore senza la mediazione del concetto, ma con il loro impeto che più gli si addice.
Ovviamente anche nel gusto poetico l’Autore si colloca in un particolare corrente, anzi, più precisamente in due: nel neoclassicismo e nel simbolismo francese. Da un lato le parole ricercate e le forme mostrate hanno un gusto ed una raffinatezza degne di un artista che duella con i titani neoclassici; ma, dall’altro, l’Autore attribuisce e personalizza ogni oggetto, evento che viene nominato, mostrando un’arte nel rendere tutta la scena una mirabile forma di ‘olismo poetico’. Parole dovrebbero essere spese anche per l’incredibile musicalità di alcune pagine, per l’incredibile unione fra significato e significante. Vi sarebbero molte altre parole da aggiungere, ma questo mio breve scritto non voleva di certo essere né una guida, né un saggio su tale opera; il mio desiderio era solo ‘indicare’, in maniera seppur, ahimé, troppo generale, delle linee guida per leggere e gustarsi questo, a mio avviso, capolavoro.
Riporto interamente una poesia che particolarmente ho apprezzato, e per il simbolismo e per l’eleganza e per la raffinatezza nei temi; di certo non è né la più bella, né la più complessa, ma mostra quella capacità di unire varie forme stilistiche in un unico componimento. (dal canto V):
Elena sollecita silenziosa
d’un violino le virginee dormienti
trecce, incuriosita dall’armoniosa
pace; curiosi scivolano i lenti
rosei delfini verso l’inascosa
grotta, quasi armoniosa a' crini rossi;
discendenti come l’appropinquarsi
in un tramonto del solare sonno.
Mesci le parole su nivee pagine;
glorificati che li occhi screziati
volgonsi su di esse; fine come aghi
le dita scivolano sui silenzi
irrispettati, d’un riso presagi;
non ingannarla mai, l'Imperatrice
dell'illusione, dacché santità
di venerazione consacri il verbo.
Le nuvol notturne come le beate
sopracciglia giungono sovra un triste
immobile fanciullo, da’ silenzi
scolpito, pensieroso putto; tacita
ella dal veron lo mira, marmorea
la sua pelle come inviolate pagine
scritte sul volto del Nulla; susseguono
le ere, ma una sola certezza giace.
Un glauco oceano ed un cielo vermiglio
scherzan sul peplo divino, lodato
affresco pur l’ombra del sopracciglio;
l’occhio che ver lei si muove avventato:
mille colori dolcemente ciglio
del sogno lo feriscono; si chiude
discendente come l’appropinquarsi
del sonno solare lo sguardo tacito.
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