La morte di K.

Creato il 19 ottobre 2012 da Riccardomotti @RiccardoMotti1

Un grave atto di violenza è avvenuto qui a Berlino durante lo scorso weekeend. Nella notte tra Sabato e Domenica c’è stata un’aggressione mortale ad Alexanderplatz. La dinamica dei fatti è tanto semplice quanto cruda. K. (20 anni), in compagnia di tre amici, era di ritorno da una festa di compleanno. Era sbronzo, e non riusciva a camminare bene. Gli amici lo hanno quindi adagiato su una delle sedie di ferro che si trovano in Rathausstrasse, in cerca di un taxi. Proprio in quel momento, un gruppo di ragazzi è uscito dal “Cancun”, locale in cui era in corso un party, e si è diretto verso di lui. Senza alcun motivo apparente, K. è stato fatto cadere e picchiato violentemente. Gli amici sono intervenuti, ma ormai era troppo tardi: il gruppo di assalitori si era già dileguato, lasciando K. agonizzante a causa delle gravissime lesioni al cervello causate dai colpi inferti. Trasportato d’urgenza in ospedale, è morto dopo un giorno di agonia.

Ovviamente, la notizia ha fatto scalpore: la giovane età della vittima, la mancanza di un qualsiasi motivo, la stessa dinamica dei fatti hanno impressionato l’opinione pubblica. Inoltre, stiamo parlando di un episodio avvenuto nel cuore della vita notturna berlinese, a due passi dal municipio e dalla torre della televisione. Tuttavia, nonostante la comprensibile indignazione e il giusto cordoglio per una vita prematuramente spezzata, si sono sentite ben poche voci pronunciarsi sensatamente sull’episodio. In primo luogo, c’è chi ha provato a far rientrare l’episodio in una “normale violenza tra immigrati” (la vittima era nata in Germania ma di origine vietnamita, per gli assalitori si è parlato di probabile origine turca o araba in generale).  In un certo senso, si commenta da solo. A parte il fatto che la vittima (e probabilmente gli assalitori) era cittadino tedesco a tutti gli effetti, è il binomio immigrazione-violenza ad essere totalmente ideologico, frutto di un vecchio pregiudizio che l’ultradestra ha buon gioco a cavalcare in casi come questo. In questo senso, dagli stessi ambienti estremisti c’è stato il chiaro intento di strumentalizzare questo episodio per auspicare una maggiore presenza della polizia in città, un maggior numero di telecamere, un controllo più stretto sulla popolazione: si è provato a creare un clima di terrore, per convincere i cittadini che la rinuncia a certe libertà personali coinciderebbe con una maggiore sicurezza. Se però diamo un’occhiata alle cifre, ci rendiamo subito conto che siamo ben lungi dal trovarci davanti ad una escalation di violenza. Negli ultimi 10 anni, il numero dei casi di omicidio registrati a Berlino è calato vertiginosamente: nel 2002 sono stati 87, nel 2011 41. Il numero di reati di lesioni gravi o gravissime è passato da 12 326 nel 2002 a 10 547 nel 2011. (Fonte dei dati: Berliner Zeitung).

Il criminologo Claudius Ohder ha fatto anche di meglio, affermando esplicitamente come il degrado di Alexanderplatz favorisca questo tipo di atti violenti. Sarebbe un discorso potenzialmente interessante, ma leggendo le sue dichiarazioni sono rimasto allibito: il degrado consisterebbe nel fatto che la piazza è “dominata da punk e alcolizzati. Lì si urina liberamente…”. Gli stessi graffiti, secondi gli “esperti della sicurezza”, sarebbero un forte segnale di degrado sociale. Una simile lettura del problema è drammaticamente superficiale. Se è vero che Alexanderplatz è un luogo problematico, questo non ha niente a che fare con l’estetica urbana rappresentata da punk o graffiti. Essi sono parte integrante della storia e della cultura della città, la rendono unica, e non hanno nulla a che fare con la violenza di cui stiamo parlando. Il problema è dato dal fatto che la piazza è un non-luogo, non può essere vissuta come elemento sociale a causa della sua conformazione particolare e delle sue dimensioni spropositate. Il modo in cui l’amministrazione cittadina la utilizza è, a mio parere, ulteriormente deleterio: si montano a scadenza regolare fiere e baracconi, che rendono la piazza una sinistra combinazione tra un parco giochi turistico e un cantiere sempre aperto. Chiaro che,  a queste condizioni, la si rende un luogo di transito costante piuttosto che un’occasione di confronto.

La morte di K. ha colpito anche me, la sua drammatica ingiustizia è un dito puntato verso la nostra società. Ma viene spontaneo chiedersi: è forse possibile bloccare la furia di un branco, quando esso sceglie una preda? Una simile dinamica non si evita con più polizia, con più telecamere. Forse dovremmo fare in modo che le nostre grandi città cessino di essere giungle d’asfalto, nelle quali i branchi possono abilmente colpire e nascondersi. Ma questo richiederebbe un altro tipo di società, un altro tipo di uomini.

Riccardo Motti

 In alto a sinistra: il sindaco Wowereit sul luogo del crimine, copyright tagesspiegel.de; al centro: il criminologo Claudius Ohder, copyright berliner-zeitung.de; in basso a sinistra: locandina de “la giunga di asfalto”, copyright wikipedia 


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