La morte non dimentica (Mystic river), di Dennis Lehane

Creato il 14 settembre 2010 da Dallenebbiemantovane

Darwinismo sociale ed etica


Una storia che ci lascia con più domande che risposte, come è giusto che sia. E dove l’approfondimento dei personaggi dà nuova luce, rispetto al film pur splendido, ad almeno due dei protagonisti.

Mi riferisco innanzitutto al personaggio di Dave, che appare quasi come l’alter ego del narratore, colui che sa, che vede tutto, che narra favole (in primo luogo a se stesso) per consolarsi e ritrarsi da una realtà insopportabile, che non può non notare i cambiamenti sociali e urbanistici del suo quartiere.
Ma Dave Boyle è anche, suo malgrado, inevitabilmente il capro espiatorio, fin da bambino isolato e disprezzato dal quartiere per la sua passività (se ti violentano è colpa tua, chiaramente), per la sua debolezza, per il suo comportamento non “da vero uomo” (mentre Lehane ha grande cura di mostrarcelo come buon padre, amante e marito nonostante la tragedia della sua infanzia).
E da innocente e vittima che era, diventa ad un certo punto della sua vita un assassino: per ragioni che solo lui può capire, ragioni legate ai fantasmi dei torti subiti, ragioni che poche giurie capirebbero.

Niente basta, nel clima shakespeariano di Mystic river, per raddrizzare il piano inclinato, per evitare di espiare le colpe collettive. Come in Cronaca di una morte annunciata, qualcuno deve pagare, lo sanno tutti, e Dave pagherà perché è il soggetto ideale.
Perché in un universo darwiniano se sei forte sopravvivrai, se sei debole o sfortunato no, e non sarà tua moglie ad aiutarti, non gli amici, non lo Stato, non la chiesa né tantomeno Dio, che probabilmente a East Buckingham non c’è mai stato, e se c’è si è voltato dall’altra parte.
Semplice, no?

Mi riferisco però anche a Jimmy, del quale vediamo e sentiamo il carisma tranquillo del leader che appare quasi la coscienza critica di un quartiere (es. le riflessioni sulla borghesizzazione del quartiere, la decisione finale di riprendere possesso del territorio e di uscire dalla legalità).
Jimmy Marcus è il custode attivo dell’ordine, un ordine gestito dalle famiglie più potenti e più violente, che va bene così com’è perché incarna i valori forti della famiglia e della paternità (non si tradiscono gli amici; amore totale per le figlie; mantenimento degli orfani di coloro che lui stesso ha ucciso) e non ricorre alla violenza se non lo ritiene assolutamente necessario al mantenimento dell’ordine.

E’ un’etica altra rispetto a quella della polizia, un’etica che non ha tempo da perdere, che ha fretta, che non si perde in sottigliezze investigative quando c’è da trovare un colpevole – e la cosa che Jimmy si rimprovererà alla fine non sarà di aver ucciso un amico e un innocente (o meglio: colpevole, ma di tutt’altro delitto, un delitto che in base alla sua etica lo stesso Jimmy avrebbe approvato), bensì di aver affrettato le conclusioni.
Anche qui, quante giurie giustificherebbero le azioni di Jimmy? Eppure l’istinto dell’occhio per occhio (che solo i microcosmi mafiosi ritengono apertamente legittimo) risiede in ogni individuo, pronto a risvegliarsi in qualsiasi borghese piccolo piccolo.
Un’etica nella quale anche le mogli contano tantissimo, e sopravvivono anch’esse solo se sono donne forti come Annabeth, non come Celeste - proprio come in ogni realtà mafiosa.

Forse il più sbiadito dei tre protagonisti è Sean Devine, anche perché Lehane - bravissimo nell’annacquare i confini tra il bene e il male e nel mostrare la normalità, la banalità, la quotidianità del sottobosco criminale - non può o non vuole mostrarci il lato violento della legge, e neanche buttare il caso sulla falsariga dei vari CSI.
La polizia e i singoli poliziotti di Lehane agiscono correttamente, diligentemente, razionalmente, con distacco, con i mezzi umani e materiali che hanno, senza geni o colpi di fortuna ma anche senza che il lettore sia particolarmente coinvolto dalle loro indagini.
Ci viene detto che Sean è chiamato “superpoliziotto” per quanti casi ha velocemente risolto, ci viene mostrata la sua bravura, così come l’onesta testardaggine del suo capo Whitey, ma in questo caso qualcuno li batterà sul tempo.
E lo troveranno, il colpevole, lo troveranno davvero, e anche con una certa rapidità e precisione: solo che rapidità e precisione non sono abbastanza, o forse sono merce avariata, in un contesto in cui qualcuno ha già deciso di farsi (in)giustizia sommaria.
Non risulta invece particolarmente convincente la faccenda della moglie che ha lasciato Sean e gli fa le telefonate mute, che mi ha lasciata freddina nel film e fa altrettanto nel libro.
Al contrario della discreta caratterizzazione dei suoi genitori, delle differenze generazionali tra padre e figlio, della loro emigrazione verso il quartiere middle-class dove ogni venti miniappartamenti c’è la piscina e ogni sabato sera si fa festa per far socializzare i neoproprietari, tutti rigorosamente dai sessant’anni in su: apparentemente un miglioramento rispetto all’insicurezza del Point, in realtà l’anticamera della morte.

Lehane, che non avevo mai letto, mi è piaciuto molto anche per la sicurezza con cui tratteggia un quartiere, le sue sottili demarcazioni spaziali, sociali ed economiche, le parabole discendenti dei destini individuali, compresi i personaggi minori, che lo scrittore prevede deterministicamente in base alle loro origini e alla loro indole.
E’ capace di scrivere dialoghi decenti, anche se non eccezionali, e di raccontare una storia sordida tanto quanto umana.

Una riflessione pessimistica e dolorosa anche sull’amicizia.
Che cos’è davvero l’amicizia, anche quella che risale all’infanzia e dovrebbe essere quindi la più pura, la più duratura, quella senza macchia e senza peccato?
Se nessuno è senza peccato – peccato di ignavia, di indifferenza, di egoismo, di violenza –, l’amicizia rimane solo una parola vuota, un esercizio di retorica, una bandiera che non rappresenta più nessuna patria, un grido d’aiuto senza risposte.


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