LA MOSCA 24: un articolo
Sebastiano Aglieco
La parola permeata
Osip Mandel’štam a Voronež
Se mi prendessero i nostri nemici
e gli uomini smettessero di rivolgermi la parola;
se mi privassero di ogni cosa al mondo,
del diritto di respirare e di aprire le porte
e di ripetere che ci sarà la vita
e che è il popolo giudice che giudica;
se osassero tenermi come un animale
e per terra mi gettassero il cibo
– non resterò in silenzio, non trangugerò il dolore,
ma traccerò dei disegni a mio piacere
e suonando a stormi il corpo nudo
e destando l’angolo della tenebra ostile
aggiogherò dieci buoi alla mia voce
e spingerò la mano nel buio come un aratro
e stretto in un mare di occhi fraterni
cadrò con la pesantezza di un intero raccolto,
con la concisione di un giuramento che prorompe lontano,
e nella profondità della notte di guardia
avvamperanno gli occhi della terra-manovale,
balenerà lo stormo degli anni fiammeggianti,
matura tempesta, Lenin stormirà,
ma sulla terra scampata allo sfacelo
Stalin distruggerà ragione e vita.
Voronež 1937
(traduzione di Serena Vitale)
Si trattava di rendere la voce di un poeta, una presenza cosciente che si aggira fra acquitrini e malaria, richiesta di chinino e pane al mercato nero: una voce che non rinuncia alla propria necessità di testimonianza, al proprio taccuino sgualcito, a costo di perdere la vita. Non scrissi quel testo ma semplicemente mi parve necessario riportare la chiarezza di una parola pronunciata a voce alta, e cioè alcuni versi del grande poeta russo: «Le ciglia pungono. Nel petto s’incrosta una lacrima./Senza terrore fiuto l’approssimarsi della tempesta./Qualcuno, strambo, mi spinge a scordarmi di qualcosa;/mi manca l’aria, eppure ho una voglia da morire di vivere».
E’ incredibile come, ancora nel 1972, la critica si trovasse impreparata di fronte agli ultimi testi inediti di Mandel’štam, spartiacque netto, certo, rispetto alla prima fase della sua produzione: «Non più spazi stellari, planetari, ma monotone pianure, «asmatica vastità» […] Non è ancora il momento, forse, per un approccio specificatamente critico alle poesie condannate di Mandel’štam: troppo recente è la loro scoperta, troppo emotiva la lettura che esse impongono in prima istanza».2
C’è già, in effetti, in questo primo approccio, l’idea di uno sguardo vasto e verticale contrapposto a uno sguardo orizzontale, di pianura, in cui la parola non sembra più indicare una visione ma subisce, invece, la visionarietà di un’utopia storica: «Mi incalza alle spalle il secolo-canelupo».
Si è parlato, a proposito di questo Mandel’štam grandioso, di capacità di intessere vaste campiture re; gesto da costruttore, da mosaicista: vastità omerica, pindarica. E come grandi costruzioni architettoniche ci appaiono, in effetti, i testi degli anni venti 3.
Questo passaggio dalle soluzioni lapidarie e gelate delle prime poesie 4, è da intendersi come una declinazione necessaria dal simbolismo all’acmeismo. L’atemporalità, il verticalismo del primo, della turris eburnea distaccata e lontana dal mondo e più vicina all’idealità delle stelle, si contrappone la visione di una poetica in cui bisogna amare l’esistenza delle cose più delle cose stesse, il peso di una cultura vissuta ma profonda; di una disponibilità esistenziale. 5
Questo rapporto con la verticalità, piuttosto che con l’orizzonte, è a dire il vero conservato in funzione di un energismo che è impossibile da comprendere senza uno sguardo ampio sul rapporto vivissimo che la poesia russa di quegli anni ha mantenuto con le utopie politiche e le terribili epurazioni del regime. E’ come se la verticalità simbolista, piuttosto che essere negata, fosse stata recuperata in Mandel’štam attraverso un’intensificazione del valore metaforico delle immagini, scaraventate dalla vastità delle stelle alla potenza della terrestrità della parola poetica. 6
La poesia di Mandel’štam, così come quella di altri poeti, per esempio Esenin 7, è andata via via formandosi a partire da una separazione, di una sfasatura temporale col secolo cavallo. «Mandel’štam sa di essere in ritardo rispetto al secolo, o forse sente di essergli imperdonabilmente in anticipo» 8.
Se la poesia è possibile, dunque, in una situazione di frizione con le istanze del mondo, nell’esilio dello scender e salire le altrui scale, le grandi costruzioni architettoniche degli anni venti, prima della parola biascicata a Voronež, dell’essere morto in vita, rappresentano il tentativo di una riconoscibilità – di un pensiero e di un canto, insomma – capaci di abbracciare, al modo degli antichi, la vasta contraddittorietà del reale. Ciò che la parola di Mandel’štam ha ottenuto col tempo, è un rapporto di reciproca permeabilità col reale, e cioè il germe di una communio desiderante; perché, lo si voglia o no, il testo è sempre leggibile o non leggibile in funzione di una frattura di senso, di una sua disponibilità a farsi attraversare. La lettura di un’opera, intesa come gesto dispettoso, è più auspicabile che intenderla come gesto rispettoso. La scontrosità di Mandel’štam rispetto alla visionarietà di una religio sociale realizzata, non si spiega addossando la colpa a un mancato incontro col secolo canelupo, quanto, piuttosto, proprio con la richiesta frontale di un incontro imbarazzante. «La domanda – come debba essere lo scrittore – è per me del tutto oscura: rispondere sarebbe come inventare lo scrittore, il che equivarrebbe a scriverne le opere al suo posto. Inoltre sono profondamente convinto che, per quanto lo scrittore dipenda e sia condizionato dai rapporti delle forze sociali, la scienza contemporanea non ha mezzi per provocare la comparsa di questo o quel tipo voluto di scrittore». 9
Insomma, i quaderni di Voronež rinunciano alla fastosità della costruzione proprio perché l’accampamento stellare 10 non mostra più le sue direttive, le sue vaste proporzioni destinali ma, piuttosto, l’orizzonte basso della Storia, la confusione dei secoli.
Cosa succede, in effetti, alla parola, quando lo spazio si restringe e si fa più angusto? Come tutte le manifestazioni vitali – e la parola è una delle manifestazioni più vitali dell’essere – si gonfia fino a scoppiare, è costretta a cambiare misura. Come ogni rivolo che, imprigionato, cerca una via di fuga o svapora per nessuna speranza, così essa si imprime sui muri o, in mancanza di supporto, rimane fissata nella mente come una litania per tempi futuri: «Non sono impoverito né scheggiato/ma solo enormemente ingigantito».
Questa dimensione gigantesca nel perimetro della prigionia, pone la poesia in uno stato di forte eccitamento e pericolo; invettiva, visione, autoproclamazione, perdita delle misure: «è tesa la mia corda/e dentro la mia voce, dopo l’asma/risuona la terra, ultima mia arma».
A Voronež, in cui il poeta è stato costretto a confinarsi, dopo versi pericolosi che gli sono costati la vita, il flusso di pensiero speculativo si è trasformato nell’ombra nera che riempie la stanza, prima che la follia ingoi la parola stessa; così la mancanza di respiro è detta e pronunciata in nome dell’appartenenza alle strutture naturali che gli uomini si danno per istinto: «Devo vivere, respirare, bolscevizzare/lavorare parole». In questa condizione di pericolo e, paradossalmente, di disperata vitalità, lontana dai circoli e dalla moda dei salotti, la poesia ritrova il suo ruolo e forse il suo vero spazio: abitare la bocca: «non siete riusciti a estirpare le labbra che si muovono» 11. Ma anche insegnare qualcosa: «Sì, sto nella terra, muovo appena le labbra,/ ma ogni scolaro imparerà quello che dico». La parola, insomma, è diventata abnorme, permeata. Costretta, cerca il cunicolo della fuga, aguzza lo sguardo, vede cose che gli altri non possono vedere o non vedono più. Relegata negli oscuri spazi di un quaderno, ha attraversato gli anni bui di una specie di non Storia, autorizzata ad esistere solo dalla protervia della moglie Nadežda. 12
Ancora si riesce a leggere, malgrado tutto, tra i frammenti delle poesie distrutte, parole come queste:
Non sono più un bambino.
E tu, tomba, taci,
Non osare dar lezione ai gobbi!
Parlo a nome di tutti così forte
Perché il cielo diventi cielo, perché le labbra
Si incrinino come argilla rosata.
(6 giugno 1931. Mosca)
Il resto è leggenda; la leggenda del poeta matto che si aggira tra le baracche del campo a rubare cibo ai compagni: uomo senza più visione, senza più la coscienza dovuta al suo tempo.
Note:
1 Ferramonti di Tarsia, compagnia teatrale DelleAli.
2 Dall’introduzione di Serena Vitale a poesie, Garzanti 1972: testo di riferimento per la stesura di questo lavoro.
3 Per esempio: Trovando un ferro di cavallo, Ode all’ardesia, 1 gennaio 1924.
4 Pietra, Tristia.
5 Serena Vitale nell’introduzione.
6 «Capiremo soltanto dalla voce/che lì c’erano lotte, e graffi,/e porteremo ardesia fresca/dove la voce ci farà vedere./Rompo la notte, caldo gesso,/per una dura iscrizione momentanea. Scambio il rumore col canto degli strali,/la struttura con lo strepito adirato», (Trovando un ferro di cavallo); «Vita d’argilla! Agonia del secolo!/Ho paura che solo ti capisca/chi porta sulla bocca l’impotente sorriso/di chi ha perso se stesso./Il dolore di cercare la parola persa,/di sollevare le palpebre malate/e con la calce nel sangue, per estranee stirpi,/raccogliere erbe notturne!», (1 gennaio 1924).
7 «Arrivederci, amico mio, arrivederci./Mio caro, sei nel mio cuore./Questa partenza predestinata/Promette che ci incontreremo ancora.//Arrivederci, amico mio, senza mano, senza parola/Nessun dolore e nessuna tristezza dei sopraccigli./In questa vita, morire non è una novità,//ma, di certo, non lo è nemmeno vivere». (Sergej Esenin, Arrivederci, amico mio, arrivederci).
8 Serena Vitale nell’introduzione.
9 Da una risposta di Mandel’štam a un questionario sul tema Lo scrittore sovietico e l’Ottobre.
10 «Riesci a capire, matrigna dell’accampamento stellare,/notte, quello che viene, adesso e dopo?». Contrapposto, per senso simbolico mutato dell’orizzonte storico e culturale, a questa immagine presente nelle prime raccolte: «Celebriamo, fratelli, il crepuscolo della libertà,/il grande anno crepuscolare./Nelle ribollenti acque notturne/è calato il pesante bosco delle reti./In anni sordi ti levi/sole, giudice, popolo.»
11 «Devo dire/segnare una mappa in cui ogni uomo è necessario/elencare i nomi dei nemici/restituire dignità e preservare il nome della poesia», (Sebastiano Aglieco, poemetto per Ferramonti di Tarsia, partendo dal verso di Mandel’štam: non siete riusciti a estirpare le labbra che si muovono.
12 Nadezda Mandel’stam, L’ epoca e i lupi, Fondazione Liberal 2006. Il racconto di Nadezda inizia nel 1934, quando Mandel’stam venne arrestato per la prima volta. Nadezda evoca poi i tre anni di confino cui Osip venne condannato e dove lei lo seguì volontariamente.