Se ciò lo paragoniamo ad un esempio canoro, sarebbe come ascoltare una melodia con un filtro nelle orecchie che lascia passare solo alcune note musicali. In questo modo diventa difficile indovinare la canzone che stiamo ascoltando per cui il suo motivo diventerà incomprensibile. Questo problema era analogo a quello che dovevano affrontare gli astronomi circa cinquant’anni fa quando essi si limitavano, appunto, ad osservare il cielo solo attraverso la luce visibile. Oggi, grazie ai progressi nel campo della tecnologia, si sono aperte tutta una serie di “finestre osservative” dello spettro elettromagnetico per cui disponiamo di una visione più moderna e più completa dell’Universo. In particolare, possiamo osservare un oggetto celeste a lunghezze d’onda, o frequenze, diverse in modo da studiarne le sue caratteristiche e proprietà fisiche ricostruendo il suo passato e magari prevedendo la sua futura evoluzione, come avviene per esempio nel caso delle stelle. Ora, mentre le onde elettromagnetiche possono essere trasformate in percezioni visibili dall’occhio umano, in natura esistono anche le onde sonore, cioè onde di densità, che sono prodotte da qualche sorgente e possono essere interpretate come deformazioni temporali dello spazio: un esempio è la voce (la sorgente) le cui onde acustiche si propagano nell’aria (lo spazio) per poi raggiungere l’orecchio umano. In generale, i corpi celesti possono produrre le onde sonore che si propagano dall’interno fino alla superficie: la deformazione che esse producono si può misurare e permette di avere informazioni indirette sulle loro proprietà fisiche. Ma una volta giunte in superficie, le onde sonore non possono più propagarsi nel vuoto, a differenza delle onde elettromagnetiche, poiché la densità del mezzo risulta troppo bassa e perciò non si formano onde di densità. Il vagito primordiale Secondo il modello cosmologico standard, si ritiene che l’Universo sia nato in seguito ad una grande esplosione iniziale, il Big Bang, che rimane a tutt’oggi il più grande enigma astrofisico (vedasi Enigmi Astrofisici). Questo termine, a cui potrebbe essere attribuito il “primo vagito cosmico”, contiene di per sé una contraddizione perché non è stato “big”, dato che si suppone che tutta la materia e l’energia fossero contenute in una sorta di punto infinitamente piccolo, quello che gli astronomi chiamano singolarità, e non c’è stato alcun “bang”, ossia alcun frastuono iniziale, poiché non c’era ancora lo spazio da permettere la propagazione di onde sonore dato che fu lo stesso “big-bang” a produrre lo spazio, la materia e l’energia, insomma il nostro Universo. Tuttavia, quasi 400 mila anni dopo, lo spazio diventò sempre più denso e solo allora si formarono le condizioni fisiche affinchè le onde sonore giunte sulla superficie delle prime strutture cosmiche furono in grado di propagarsi verso l’esterno. Infatti, grazie alla recente missione spaziale del satellite WMAP (Wilkinson Microwave Anisotropy Probe), oggi possiamo rivelare quelle increspature sulla “superficie dell’Universo” e, analizzando le tracce delle onde sonore iniziali, possiamo risalire alla natura del materiale che le ha trasportate durante le fasi primordiali, ottenendo così informazioni di fondamentale importanza su come è nato e si è evoluto l’Universo. Ma è possibile ricostruire il “vagito cosmico”, cioè il suono della grande esplosione iniziale? La risposta è no per i motivi che abbiamo detto in precedenza. Nonostante ciò, un gruppo di ricercatori dell’Università di Washington guidati da John Cramer ha elaborato un modello dell’eco dell’esplosione iniziale, nota agli astronomi come la radiazione fossile, concludendo che essa non fu simile a quella di una gigantesca detonazione bensì a quella di un aereo che vola sopra le nostre teste. Il modello si basa sui dati del satellite WMAP e considera tutte le frequenze in un arco di tempo che va dal Big Bang fino a circa 760 mila anni dopo, quando cioè l’Universo aveva un diametro di circa 20 milioni di anni luce. Il “suono” risultante, però, non è udibile all’orecchio umano, perciò i ricercatori hanno dovuto alzare la frequenza di 100 mila miliardi di miliardi di volte e ciò che ne risulta assomiglia ad un aereo in avvicinamento che poi si allontana. Secondo alcuni scienziati, nella radiazione fossile si sono impresse le onde acustiche che si propagavano in un mezzo primordiale composto da un gas di particelle elementari caratterizzato da regioni più dense e meno dense. Le perturbazioni nate da queste differenze di densità si propagavano come onde sonore che sono state catturate dopo 13 miliardi di anni dal satellite WMAP convertendo in suono l’eco del Big Bang. Una sinfonia cosmica Se il suono dell’eco cosmica assomiglia a quello di un tono grave simile a quello di un contrabbasso, nel cosmo si possono “ascoltare” una varietà di suoni misteriosi che provengono tipicamente dalle stelle, ma anche dai pianeti. Nel caso delle supernovae, che sono ben visibili da enormi distanze grazie alla loro elevata luminosità, il suono dell’esplosione della stella non può essere percepito, poiché le onde sonore non possono propagarsi nello spazio. Ma cosa succede se convertiamo le onde luminose di una supernova in un suono percepibile dall’orecchio umano? È ciò che ha realizzato il percussionista della band Grateful Dead e vincitore di un Grammy, Mickey Hart con il suo progetto musicale “Rhythms of the Universe”. Grazie alla collaborazione di Keith Jackson, un informatico di Berkeley e appassionato di musica, una volta eseguita la conversione da onde luminose a onde sonore, preservando sempre l’informazione scientifica, ciò che si sente è una sorta di vibrazione grave prodotta da un tamburo, inframmezzata da suoni più acuti, quasi come se si avesse la percezione di udire un terremoto. Nella sua versione canora, il Sole assomiglia ad un gigantesco organo a canne o ad una potente chitarra e quando dalla corona solare vengono emessi i giganteschi brillamenti, imponenti vampate che possono raggiungere temperature di milioni di gradi Celsius, si elevano sibili sottilissimi e risonanze che ci ricordano l’ambient music. La famosissima nebulosa del Granchio, una stella esplosa nel 1054 ed osservata per la prima volta dagli astronomi cinesi e arabi, ospita una pulsar, cioè una sorgente stellare pulsante che emette onde radio. Qui, le intense radiazioni elettromagnetiche, dovute alla rapida rotazione della stella di neutroni i cui impulsi hanno un periodo di 33 millisecondi, ricordano una sorta musica percussionistica caratterizzata da uno schiocco secco, periodico e regolare. Nel caso dei pianeti un esempio per tutti è Giove che quando interagisce gravitazionalmente con la luna più vicina, Io, produce una sequenza sonora che può durare anche molte ore. Inoltre, sempre nel sistema di Giove, unici sono i suoni prodotti dalle aurore che si formano su Ganimede. Più di recente, la sonda Cassini-Huygens ha registrato l’eco dei turbini che martellano l’atmosfera di Saturno. Infine, sopra le nostre teste un po’ di romanticismo ci viene dato dalle stelle cadenti che producono suoni attraversando l’atmosfera terrestre manifestandosi come meteore. Insomma, quasi tutti i corpi celesti vibrano come strumenti musicali e perciò producono i suoni più svariati: dal mormorio al rombo, dal fruscio al clic fino al rumore puro. Se poi un giorno si dimostrerà vero che l’Universo non è composto da particelle elementari bensì da stringhe infinitamente piccole, come descritto dalla teoria delle stringhe, allora la sinfonia cosmica potrebbe essere composta, in definitiva, dalle vibrazioni di questi filamenti sottili accompagnate dai suoni emessi da ogni oggetto celeste quale componente di una grandiosa orchestra.
Se ciò lo paragoniamo ad un esempio canoro, sarebbe come ascoltare una melodia con un filtro nelle orecchie che lascia passare solo alcune note musicali. In questo modo diventa difficile indovinare la canzone che stiamo ascoltando per cui il suo motivo diventerà incomprensibile. Questo problema era analogo a quello che dovevano affrontare gli astronomi circa cinquant’anni fa quando essi si limitavano, appunto, ad osservare il cielo solo attraverso la luce visibile. Oggi, grazie ai progressi nel campo della tecnologia, si sono aperte tutta una serie di “finestre osservative” dello spettro elettromagnetico per cui disponiamo di una visione più moderna e più completa dell’Universo. In particolare, possiamo osservare un oggetto celeste a lunghezze d’onda, o frequenze, diverse in modo da studiarne le sue caratteristiche e proprietà fisiche ricostruendo il suo passato e magari prevedendo la sua futura evoluzione, come avviene per esempio nel caso delle stelle. Ora, mentre le onde elettromagnetiche possono essere trasformate in percezioni visibili dall’occhio umano, in natura esistono anche le onde sonore, cioè onde di densità, che sono prodotte da qualche sorgente e possono essere interpretate come deformazioni temporali dello spazio: un esempio è la voce (la sorgente) le cui onde acustiche si propagano nell’aria (lo spazio) per poi raggiungere l’orecchio umano. In generale, i corpi celesti possono produrre le onde sonore che si propagano dall’interno fino alla superficie: la deformazione che esse producono si può misurare e permette di avere informazioni indirette sulle loro proprietà fisiche. Ma una volta giunte in superficie, le onde sonore non possono più propagarsi nel vuoto, a differenza delle onde elettromagnetiche, poiché la densità del mezzo risulta troppo bassa e perciò non si formano onde di densità. Il vagito primordiale Secondo il modello cosmologico standard, si ritiene che l’Universo sia nato in seguito ad una grande esplosione iniziale, il Big Bang, che rimane a tutt’oggi il più grande enigma astrofisico (vedasi Enigmi Astrofisici). Questo termine, a cui potrebbe essere attribuito il “primo vagito cosmico”, contiene di per sé una contraddizione perché non è stato “big”, dato che si suppone che tutta la materia e l’energia fossero contenute in una sorta di punto infinitamente piccolo, quello che gli astronomi chiamano singolarità, e non c’è stato alcun “bang”, ossia alcun frastuono iniziale, poiché non c’era ancora lo spazio da permettere la propagazione di onde sonore dato che fu lo stesso “big-bang” a produrre lo spazio, la materia e l’energia, insomma il nostro Universo. Tuttavia, quasi 400 mila anni dopo, lo spazio diventò sempre più denso e solo allora si formarono le condizioni fisiche affinchè le onde sonore giunte sulla superficie delle prime strutture cosmiche furono in grado di propagarsi verso l’esterno. Infatti, grazie alla recente missione spaziale del satellite WMAP (Wilkinson Microwave Anisotropy Probe), oggi possiamo rivelare quelle increspature sulla “superficie dell’Universo” e, analizzando le tracce delle onde sonore iniziali, possiamo risalire alla natura del materiale che le ha trasportate durante le fasi primordiali, ottenendo così informazioni di fondamentale importanza su come è nato e si è evoluto l’Universo. Ma è possibile ricostruire il “vagito cosmico”, cioè il suono della grande esplosione iniziale? La risposta è no per i motivi che abbiamo detto in precedenza. Nonostante ciò, un gruppo di ricercatori dell’Università di Washington guidati da John Cramer ha elaborato un modello dell’eco dell’esplosione iniziale, nota agli astronomi come la radiazione fossile, concludendo che essa non fu simile a quella di una gigantesca detonazione bensì a quella di un aereo che vola sopra le nostre teste. Il modello si basa sui dati del satellite WMAP e considera tutte le frequenze in un arco di tempo che va dal Big Bang fino a circa 760 mila anni dopo, quando cioè l’Universo aveva un diametro di circa 20 milioni di anni luce. Il “suono” risultante, però, non è udibile all’orecchio umano, perciò i ricercatori hanno dovuto alzare la frequenza di 100 mila miliardi di miliardi di volte e ciò che ne risulta assomiglia ad un aereo in avvicinamento che poi si allontana. Secondo alcuni scienziati, nella radiazione fossile si sono impresse le onde acustiche che si propagavano in un mezzo primordiale composto da un gas di particelle elementari caratterizzato da regioni più dense e meno dense. Le perturbazioni nate da queste differenze di densità si propagavano come onde sonore che sono state catturate dopo 13 miliardi di anni dal satellite WMAP convertendo in suono l’eco del Big Bang. Una sinfonia cosmica Se il suono dell’eco cosmica assomiglia a quello di un tono grave simile a quello di un contrabbasso, nel cosmo si possono “ascoltare” una varietà di suoni misteriosi che provengono tipicamente dalle stelle, ma anche dai pianeti. Nel caso delle supernovae, che sono ben visibili da enormi distanze grazie alla loro elevata luminosità, il suono dell’esplosione della stella non può essere percepito, poiché le onde sonore non possono propagarsi nello spazio. Ma cosa succede se convertiamo le onde luminose di una supernova in un suono percepibile dall’orecchio umano? È ciò che ha realizzato il percussionista della band Grateful Dead e vincitore di un Grammy, Mickey Hart con il suo progetto musicale “Rhythms of the Universe”. Grazie alla collaborazione di Keith Jackson, un informatico di Berkeley e appassionato di musica, una volta eseguita la conversione da onde luminose a onde sonore, preservando sempre l’informazione scientifica, ciò che si sente è una sorta di vibrazione grave prodotta da un tamburo, inframmezzata da suoni più acuti, quasi come se si avesse la percezione di udire un terremoto. Nella sua versione canora, il Sole assomiglia ad un gigantesco organo a canne o ad una potente chitarra e quando dalla corona solare vengono emessi i giganteschi brillamenti, imponenti vampate che possono raggiungere temperature di milioni di gradi Celsius, si elevano sibili sottilissimi e risonanze che ci ricordano l’ambient music. La famosissima nebulosa del Granchio, una stella esplosa nel 1054 ed osservata per la prima volta dagli astronomi cinesi e arabi, ospita una pulsar, cioè una sorgente stellare pulsante che emette onde radio. Qui, le intense radiazioni elettromagnetiche, dovute alla rapida rotazione della stella di neutroni i cui impulsi hanno un periodo di 33 millisecondi, ricordano una sorta musica percussionistica caratterizzata da uno schiocco secco, periodico e regolare. Nel caso dei pianeti un esempio per tutti è Giove che quando interagisce gravitazionalmente con la luna più vicina, Io, produce una sequenza sonora che può durare anche molte ore. Inoltre, sempre nel sistema di Giove, unici sono i suoni prodotti dalle aurore che si formano su Ganimede. Più di recente, la sonda Cassini-Huygens ha registrato l’eco dei turbini che martellano l’atmosfera di Saturno. Infine, sopra le nostre teste un po’ di romanticismo ci viene dato dalle stelle cadenti che producono suoni attraversando l’atmosfera terrestre manifestandosi come meteore. Insomma, quasi tutti i corpi celesti vibrano come strumenti musicali e perciò producono i suoni più svariati: dal mormorio al rombo, dal fruscio al clic fino al rumore puro. Se poi un giorno si dimostrerà vero che l’Universo non è composto da particelle elementari bensì da stringhe infinitamente piccole, come descritto dalla teoria delle stringhe, allora la sinfonia cosmica potrebbe essere composta, in definitiva, dalle vibrazioni di questi filamenti sottili accompagnate dai suoni emessi da ogni oggetto celeste quale componente di una grandiosa orchestra.
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