No, non è la solita governante. Non pensate alla truculenza delle Serve di Genet e nemmeno alle ultime rimostranze delle Domesticas pauliste di Fernando Meirelles e Nando Olival (2001), perché l’abituale canovaccio della lotta di classe e del “machiavellismo da camera” il cileno Sebastián Silva l’ha buttato in centrifuga a 90 gradi. Il risultato? Bianco che più bianco non si può, una tabula rasa da cui si erge imperiosa La nana (titolo originale) Catalina Saavedra, veterana del piccolo schermo cileno e qui protagonista di una prova terrificante, in più di un’accezione del termine.Che siamo di fronte a una rivoluzione degli oliati meccanismi servo-padrone non lo capiamo subito, anzi, fino alla fine – che da sola vale il prezzo del biglietto – non è chiaro dove si andrà a parare, ma il buon Silva ci dà degli indizi “sovversivi”. In principio, vediamo l’agiata famiglia Valdes accendere la candeline e raccogliere i regali, mentre in cucina la festeggiata, la cameriera Raquel, fruga disgustata nella poltiglia marrone sul piatto: there will be blood? No, senza troppo entusiasmo, accetta i regali e se ne torna in cucina, suo regno e sua prigione. La sua lama non taglia le convenzioni borghesi, non oltraggia il pudore della “catena alimentare”, piuttosto fa a pezzetti le nostre aspettative, la nostra enciclopedia sui generis, e ancor prima quella degli stessi Valdes. Premiato al Sundance 2009, con la Saavedra che ha bissato il riconoscimento al Festival di Torino, La nana ha pure ricevuto una nomination per il miglior film straniero ai Golden Globes, soprattutto è un ottimo esempio di cinema indie e glocal: il Cile non va in fuoricampo, ma la lezione “vale” per qualsiasi latitudine. Come attestano il plauso critico indifferenziato e l’alto gradimento di pubblico, una indicazione geografica tipica, ma non ottusa. Perché nella cornice non inedita di divertimento e tristezza, “discorso di classe” ed empatia proletaria, kammerspiel e commedia domestica, Silva, soggettista e sceneggiatore con Pedro Peirano, traccia linee ferocemente spezzate tra alto e basso, aspettative e sorprese, crudeltà e solidarietà. Ne viene una maionese impazzita, ma con sapienza e sapore: ricchezza e servitù, nobiltà e patemi d’animo, apologo sociologico e denuncia civile, risate larghe e presentimenti horror, per centrare, già sulla carta, uno dei personaggi più indimenticabili del cinema ultimo scorso. Raquel, vi chiederete, sarà sociopatica o semplicemente razionale? La risposta vi lascerà interdetti, complice la mostruosa metamorfosi della Saavedra, governante di nome e di fatto: lei regna pure con l’emicrania, noi sudditi fedeli la seguiamo su e giù per la casa–schermo, con l’aspirapolvere in mano e una nemica–amica da eliminare… L’alta definizione, poi, con la quale il film è girato lascia sporche, piatte e ruvide le immagini, in efficace contrappunto con gli squarci vividi della storia, tutta giocata nell’avvincente ping pong tra dominazione e sottomissione. Non vi lascerà scampo.
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