La narrativa che dura

Da Marcofre

Nel libro “Il mestiere di scrivere”, Carver parla della tenerezza. Lo fa evocando una frase di Santa Teresa.
Non conosco nulla della religiosità di Carver, forse era ateo, forse credeva ma non era praticante.

In fondo queste sono faccende che riguardano solo lui, e se cercassimo di tener fuori il naso dalla biografia di un autore (a meno che non abbia a che fare con il codice penale), la narrativa ne guadagnerebbe almeno in concretezza.
L’equivoco nasce da un formidabile errore di valutazione.

Siccome si crede che la letteratura sia una pappetta per sdentati, l’unico modo per renderla un poco interessante è andare a ficcare il naso dietro le quinte. Lì c’è sufficiente roba per rendere finalmente gustosa la narrativa.

Quello che deve essere chiaro è che la narrativa conduce le persone non nello sgabuzzino dello scrittore. Ma alla scoperta di un territorio accidentato. Lo so che non dovrebbe essere così perché i lettori poi protestano.
Desiderano sentirsi sollevati: mai provato con una catapulta?

Il territorio accidentato di cui parlo è fatto di parole che si usano poco. Al suo ingresso (ammesso che ci sia una sorta di ingresso a questo territorio), ci sono una serie di cartelli di avviso, e forse persino del filo spinato. Sì, perché entrarci non è indicato, anzi è sconsigliato: richiede impegno e fatica, e costringe, come tutti i territori scomodi, a fare i conti con noi stessi. Su quei cartelli troveremo scritte come: “Disciplina”. “Ascolto”. “Silenzio”.

La maggior parte delle persone passa, scorre lo sguardo su di esse, ha un brivido e volge gli occhi altrove. Verso il Paese dei Balocchi: “Rumore”. “Chi se ne frega”.

Carver utilizza “tenerezza”. Più avanti ricorre invece a un’altra parola difficile: anima, o spirito. Sono parole che appartengono a ciascuno di noi, ma che sono occultate. Altre hanno preso il loro posto e non mi pare sia necessario dire quali siano. Immagino che un autore dotato di talento si debba sentire persino rassicurato da quanto accade in giro. Tutto, o molto, spinge con forza in direzione di un territorio piano, anzi in discesa, comodo, dove non ci sono domande (perché fanno venire male alla testa), e tutto è all’insegna dell’allegria.

Se lo scopo è produrre narrativa che dura, questi tempi di superficialità, di slogan, di “Mi piace” su Faccialibro sono perfetti. Non che il successo sia dietro l’angolo.
Ma più la realtà è contraffatta e balorda, più l’autore con la testa sulle spalle (e talento) avrà la possibilità di sbizzarrirsi. Non gli mancheranno personaggi e storie. Forse il pubblico diserterà, forse no: non sarà un pensiero capace di guastargli troppo il sonno.