La narrazione e la dietrologia: due momenti della riflessione

Creato il 28 maggio 2012 da Autodafe

di Cristiano Abbadessa

Contravvengo a una delle norme auree stabilite al momento della creazione di questo blog, che dovrebbe dare spazio a “libri, autori e lettori di Autodafé”. Questa volta parlerò di un libro e di un autore che nostri non sono, pur non escludendo affatto che l’autore sia anche lettore di opere di Autodafé e mi permetta quindi di salvare la forma e la regola. Lo faccio volenieri, un po’ perché non è incoerente dedicare attenzione a un autore per certi versi vicino e un po’ perché il libro mi offre uno spunto preciso per tornare, come vedremo, su un tema che ho affrontato una settimana fa e sul quale il nostro Antonio Sofia si è espresso con considerazioni molto pertinenti e propedeutiche al ragionamento che qui svilupperemo.
Il libro in questione è Quando il comunismo finì a tavola (sottotitolo, più esplicativo: Trentatré anni per smettere di mangiare bambini), edito da Caratterimobili. L’autore è Fernando Coratelli, buon animatore della scena letteraria milanese, col quale ci siamo incontrati in diverse occasioni e al quale ci accomunano senza dubbio alcune sensibilità. Durante una delle iniziative cui abbiamo partecipato (la giornata del libro al Balubà Café, organizzata dalla libreria Il mio libro sul modello della festa catalana di Sant Jordi), Fernando Coratelli ha presentato questa sua opera, difficilmente catalogabile, tanto da aver scherzosamente lamentato di essere finito, nelle librerie, tra i saggi e non tra le opere di narrativa. Scelta forse discutibile ma non peregrina, perché la narrazione è in questo libro un tenue filo, con l’aggiunta di un prologo e di un epilogo maggiormente letterari e inseriti quasi di forza e pretesto, a mio modesto avviso, tra le parti meno riuscite dell’opera.
Il libro, invece, è nel suo insieme estremamente godibile. Non è questa la sede per farne una recensione, ma per dare l’idea dirò che, nei contenuti anche se non nella struttura, si richiama un po’ a Il più mancino dei tiri di Edmondo Berselli. Si tratta, in sostanza, di considerazioni e ricordi che, seguendo alcune precise tappe cronologiche, si sviluppano in realtà a ruota libera mescolando con sapienza molti ingredienti: c’è tanta politica (e lo si capisce dal titolo), tanta storia contemporanea, molto sport, molta musica, parecchio costume e un po’ di gastronomia a fare da filo rosso (in senso letterale). Il tutto in una visione soggettiva che, con felice invenzione, mette a confronto l’alter ego dell’autore (più ego che alter, direi) e un interlocutore adeguatamente pretestuale.
Oltre a ricordarmi Berselli, più immodestamente il libro mi ha anche ricordato la serie di blog con pretesa di narrazione cronachistica che tenni per due anni qualche tempo fa. Vi si avvicina per i temi e per alcune invenzioni di contorno, anche se diversissimi sono gli scopi (qui una summa da condensare in un breve libro compiuto e finito; là una narrazione in divenire che si nutriva di tutto e si moltiplicava) e le scelte di contestualizzazione (qui un autore che si confronta con un altro personaggio; là un autore che si scomponeva in tre diversi protagonisti che interagivano tra loro).
Libro piacevole, dicevo. E, volendo fare un complimento, direi proprio che non l’ho divorato, ma che ho al contrario cercato di centellinarlo. Perché il vero gusto, almeno per me, è stato quello di immaginarmi terzo interlocutore al tavolo coi due protagonisti e di interagire con loro sul filo dei ricordi, delle impressioni, delle riletture, dei giudizi; operazione fra l’altro particolarmente adatta per chi è del 1961 o dintorni come lo sono io (se leggerete il libro capirete perché mi era facile e divertente fare il terzo attore), ma potenzialmente stimolante per chiunque.
Una delle interazioni immaginarie che ho sviluppato durante la lettura, però, voglio ora renderla pubblica, capitando fra l’altro a fagiolo coi temi toccati ultimamente in questa sede.
Almeno un paio di volte (ma forse tre), spiegando al suo interlocutore recenti fatti storici di particolare gravità e dai contorni molto ambigui, il personaggio-autore frena il suo tracciare interpretazioni e scenari giustificando con un “non voglio passare per dietrologo” il suo troncare e ridurre l’analisi. Frase che mi ha colpito e forse disturbato, anche perché ripetuta quanto basta per diventare, in un libro molto breve, una sorta di refrain.
Capisco che dietrologia è diventata una sorta di parolaccia, con la quale si vuole oggi identificare la mania di sfuggire le spiegazioni semplici per mestare in torbidi e improbabili scenari di complotto (altra parola impronunciabile). Capisco, ma non condivido affatto. Perché la dietrologia, per me, è l’arte di capire cosa sta dietro a un evento, quali ragioni lo hanno generato, per quali motivi è accaduto in quelle forme. A rigore, la dietrologia è la base della scienza e del progresso: chi è più dietrologo di un Newton che, arrivandogli in testa una mela matura, anziché lamentarsi per il bozzo o mangiarla felicemente si mette a chiedersi cosa sta dietro un fenomeno che la natura replica da millenni? E quel che vale per Newton vale per tutti coloro che ci hanno fornito le spiegazioni sulle cause e ne hanno descritto i processi.
Dietrologia
ha cominciato a essere una parolaccia quando il potere ha capito che una spiegazione ufficiale di comodo può bastare a nutrire quanti, superficialmente travolti dalla massa di informazioni, si interrogano solo su cosa è accaduto e chi è stato, ma per nulla si interessano al come è avvenuto un fatto e soprattutto perché. Ignorando, fra l’altro, che indagare il come e il capire il perché, spesso rende molto più semplice e veritiero leggere il chi e il cosa.
La storia recente del nostro paese, come l’attualità di questi tempi, è piena di eventi che meritano una riflessione e un’indagine accurata, prima di una spiegazione. Autodafé, come sapete, è nata proprio con questo intento: non fornire verità, comode o scomode che siano, come avviene nella saggistica d’inchiesta, ma proporre una narrazione in grado di stimolare la riflessione e, quindi, la comprensione. Per arrivare a questo, noi ci mettiamo la narrazione, ma è ovvio che spetta al lettore – con la sua cultura, la sua sensibilità, la sua curiosità intellettuale, la sua passione politica – metterci la capacità dietrologica di andare oltre il semplice racconto e di trasformare la pura letteratura in punto di partenza per una crescita civile.
Sono certo che Fernando, per sua formazione e propensione, è in realtà d’accordo con quanto dico. Di più: sospetto che le frasi sul non voler passare per dietrologo siano messe a bella posta, con buon senso di autoironia, in un libro che in realtà di dietrologia è giustamente, e inevitabilmente, ricco. Ma mi piace puntualizzarlo in forma esplicita, per ridare dignità a una scienza che sta alla base della conoscenza e che si è, e non per caso, voluto trasformare in parolaccia.


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :