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La natura umana e la coevoluzione geni-cultura

Creato il 12 aprile 2013 da Senryu @DenisGobbi

La natura umana e la coevoluzione geni-cultura

Trascrizione a cura di Daniel Iversen

Trascrizione dal libro: “La conquista sociale della Terra” di Edward O. Wilson

Si parla tanto di “natura umana”. Io volevo proporvi la lettura di questo capitolo dell’ultimo libro del biologo Edward W. Wilson

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La natura umana sono le regolarità ereditate dello sviluppo mentale comune alla nostra specie.Esse sono le “regole epigenetiche” che si sono sviluppate grazie all’interazione fra l’evoluzione genetica e l’evoluzione culturale, interazione che ha richiesto un lungo periodo della nostra storia ancestrale. Queste regole sono le predisposizioni genetiche nel modo in cui i nostri sensi percepiscono il mondo circostante, il codice simbolico con cui rappresentiamo il mondo, le opzioni che automaticamente ci riserviamo e le reazioni che ci sembrano più facili e premianti. In modi che cominciano a essere messi a fuoco a livello fisiologico e in alcuni casi perfino a livello genetico, le regole epigenetiche influenzano il modo in cui vediamo e classifichiamo linguisticamente i colori. Ci spingono a valutare l’estetica dell’arte figurativa secondo forme elementari astratte e il suo grado di complessità. Decidono quali individui di solito troviamo sessualmente più attraenti. Ci portano in modo differenziale a incamerare paure e fobie riguardo ai pericoli nascosti nell’ambiente, come l’acrofobia o l’herpetofobia; a comunicare con determinate mimiche facciali e forme di linguaggio corporeo; a legarci ai bambini; a unirci in matrimonio, e così via, attraverso un’ampia gamma di altre categorie comportamentali e mentali. Chiaramente quasi tutte le regole epigenetiche sono antichissime e risalgono indietro milioni di anni alla nostra discendenza di mammiferi. Altre, come gli stati dello sviluppo linguistico, sono vecchie soltanto centinaia di migliaia di anni. Almeno una regola, la tolleranza degli adulti al lattosio del latte, dunque la possibilità di una cultura lattiero-casearia in alcune popolazioni, risale solo ad alcune migliaia di anni or sono.

Come è chiaro dal prefisso “epi-” (supera, su) nell’aggettivo “epigenetico“, le regole dello sviluppo fisiologico non sono cablate nei geni e non sfuggono a un controllo cosciente come gli automatismi del battito cardiaco e della respirazione. Esse sono meno rigide dei riflessi puri come i battiti di ciglia e i riflessi patellari. Il più complesso dei riflessi è la reazione di trasalimento. Se ti avvicini di soppiatto a una persona da dietro e all’improvviso fai un rumore forte – un urlo o uno schianto – questa persona, in una frazione di secondo, prima ancora che la corteccia frontale possa elaborare una risposta, rilasserà i muscoli, chiuderà gli occhi, aprirà la bocca, chinerà la testa in avanti e piegherà leggermente le ginocchia. In natura e nella vita moderna, la reazione la prepara istantaneamente e inconsciamente all’urto o al colpo che seguiranno. Un’altra volta potrà salvarsi dall’assalto di un nemico o di un predatore. La reazione di trasalimento è rigidamente prescritta dai geni, ma non fa parte della natura umana per come intuitivamente la percepiamo. E’ un tipico riflesso, del tutto indipendente dalla coscienza.
I comportamenti creati dalle regole epigenetiche non sono innati come i riflessi. Innate sono, invece, le regole epigenetiche, che, quindi, costituiscono il vero nucleo della natura umana.
Questi comportamenti sono appresi, ma il processo è “preparato”, per usare il linguaggio degli psicologi. Nell’apprendimento “preparato” siamo geneticamente predisposti ad apprendere e quindi a privilegiare un’opzione rispetto a un’altra e siamo “contropreparati” a fare scelte alternative o perfino a evitarle in tutti i modi.
Per esempio, siamo preaparati ad apprendere prestissimo la paura dei serpenti fino ad arrivare facilmente a essere fobici, mentre non siamo preparati dall’istinto a trattare gli altri rettili, come le tartarughe e le lucertole, con una repulsione lontanamente simile.
Attraverso l’apprendimento preparato siamo portati a trovare incantevole un parco solcato da un ruscello, e contropreparati a reagire allo stesso modo di fronte all’interno di una foresta buia. Queste reazioni ci sembrano “naturali”, anche se devono essere apprese, e il punto è proprio questo.
Come si sono evolute tali regole epigenetiche? Io cominciai a catalogare questo processo negli anni ’60-’70 del secolo scorso, quando il dibattito su eredità/ambiente e geni/cultura era acceso e politicizzato. A mio avviso, la radice del problema era il modo in cui l’evoluzione dei geni influenza quella della cultura. Era chiaro che questa interazione rappresentava una sfida teorica di difficoltà straordinariamente interssante. Nel 1979 invitai Charles J. Lumsden, un giovane fisico teorico di dimostrata abilità, ad affiancarmi nello studio di questo argomento.
Presto arrivammo a capire che potevamo sbrogliare questa matassa solfato se ne affrontavamo il mistero non come un tutt’uno, ma come due problemi irrisolti.
Il primo era identificare la base istintuale, ergo a-culturale, della natura umana. Il secondo, ancora più ostico, era la relazione causale fra l’evoluzione dei geni e quella della cultura, cioè la “coevoluzione geni-cultura” come decidemmo di chiamarla. Da tempo era evidente che molte caratteristiche del comportamento sociale umano sono influenzate dall’ereditarietà, sia per la specie nel suo complesso sia per le differenze fra i membri della stessa popolazione. Era altresì chiaro che le proprietà innate della natura umana dovevano essersi evolute come adattamenti. Avevamo anche intuito che la chiave del problema è la preparazione e contropreparazione nel modo in cui le persone si acculturano. Nei due anni successivi, io e Lumsden costruimmo e presentammo la prima teoria della coevoluzione geni-cultura.
Altri ricercatori ripresero il concetto di co-evoluzione geni-cultura, anche se ponevano l’accento soprattutto sull’evoluzione culturale. Essi vedevano nell’evoluzione genetica la forza che ha dato origine all’attitudine alla cultura oppure uno dei due binari di una ferrovia, che corre più o meno separatamente accanto all’evoluzione culturale. E prestavano poca attenzione alle interazioni, alle regole epigenetiche o alle componenti genetiche grazie alle quali avviene la co-evoluzione.
Questa unilateralità è curiosa, dato che c’era più una prova fin dagli anni settanta e ottanta delle proprietà genetica del tipo di solito citate come parte della “natura umana”, con influenze tangibili su alcuni aspetti dell’evoluzione culturale.
Il preconcetto potrebbe essere sorto come un’eccesso di cautela in omaggio alla visione della mente come una tabula rasa, che negava del tutto l’esistenza di un istinto umano.
Negli anni 70 e 80 la preferenza andava in genere a quella che potremmo definire l’ipotesi del “gene- prometeico”. Secondo i sostenitori di questo punto di vista, l’evoluzione genetica produceva la cultura, ma solo nel senso che creava l’attitudine alla cultura.
In quel periodo gli scienziati social, salvo alcune importanti eccezioni, accettavano sia il cervello come tabula rasa sia il gene prometeico come modo per affermare l’autonomia delle scienze sociali e delle discipline umanistiche.
Questa visione senza dimensione biologica dell’evoluzione sociale era anche derivata da una seconda ipotesi chiave: l’unità psichica del genere umano.
Secondo questa opinione, la cultura umana si era evoluta in un lasso di tempo troppo breve perché l’evoluzione genetica potesse manifestarsi, almeno oltre il genotipo prometeico polivalente che separa l’umanità dalle altre specie animali.
Dacchito potrebbe sembrare che l’evoluzione culturale tenda a inibire o perfino a invertire l’evoluzione genetica. L’uso dei fuochi di bivacco, di abitazioni chiuse e di un’abbigliamento caldo consentì agli umani di sopravvivere e di riprodursi in parti del mondo dove altrimenti sarebbe stato impossibile superare l’inverno. Di più: tecniche progredite di caccia e l’agricoltura permisero alle persone di radicarsi in habitat dove di solito avrebbero patito la fame. Perché essere governati da geni se i cambiamenti culturali potevano ottenere lo stesso risultato in così breve tempo? E’ una domanda legittima.
In effetti, l’evoluzione culturale tende indubbiamente a deprimere l’evoluzione genetica.
Pur tuttavia, ci sono nuove sfide e opportunità abbondanti nei molti habitat terrestri che possono affrontate – almeno fronteggiate più efficacemente – con un cambiamento dei geni guidato dalla selezione naturale, compresi strani cibi nuovi, malattie e regimi alimentari.
L’esplosione di nuove mutazioni dopo la fuoriuscita dall’Africa circa sessantamila anni or sono creò un grosso numero di questi nuovi geni potenzialmente adattativi.
Sarebbe strano se l’evoluzione genetica non fosse avvenuta in differenti popolazioni man mano che colonizzavano il resto del mondo. L’esempio classico della co-evoluzione geni-cultura avvenuta negli ultimi milleni è lo sviluppo della tolleranza del lattosio negli adulti.
In tutte le generazioni umane precedenti, la produzione della lattasi, l’enzima che trasforma il lattosio zuccherino in zuccheri assimilabili, era presente soltanto nei neonati.
Quando i bambini venivano svezzati dal latte materno, il loro corpo sopendeva automaticamente l’ulteriore produzione di lattasi. Quando, poi, si sviluppò la pastorizia, da novemila a tremila anni or sono, in modo diverso e indipendente in Europa settentrionale e in Africa orientale si diffusero per via culturale mutazioni che perpetuarono la produzione di lattasi nella vita adulta, favorendo il consumo continuato di latte. Il vantaggio per la sopravivenza e la produzione derivacnte dall’utilizzo del latte e dei prodotti lattiero-caseari si rivelò enorme. Le mandrie di mucca da latte, capre, e cammelli sono fra le fonti di cibo più abbondanti e affidabili di anno in anno a disposizione degli umani. I genetisti hanno scoperto 4 mutazioni indipendenti che prolungano la produzione della lattasi, una in Europa e tre in Africa.
La tolleranza del lattosio è un esempio di quello che gli ecologi e i ricercatori in evoluzione umana chiamano “costruzione di nicchia”.
Nel caso della coevoluzione geni-cultura verificatasi con la produzione del lattosio, la nicchia fu creata per includere la pastorizia come nuova importante riserva di cibo.
Geni mutanti erano disponibili in frequenze bassissime, e rapidamente rimpiazzarono le altre varianti più vecchie. Inoltre, erano geni codificatori di proteine, lo strumento principale con cui avvengono cambiamenti in specifici tessuti, nella fattispecie il sistema digerente.
Nell’ultimo mezzo secolo numerosi altri processi coevolutivi intrecciati sono stati scoperti da antropologi e psicologi. Nel loro insieme, formano una classe di cambiamenti genetici di natura differente dall’acquisizione locale della tolleranza del lattosio. Essi sono universali nel genere umano moderno e anche antichi, e la loro origine precede la comparsa di Homo sapiens moderno e almeno in alcuni casi perfino la separazione uomo-scimpanzè di più di sei milioni di anni fa. Operando al livello della conoscenza e delle emozioni, il loro effetto sull’evoluzione del linguaggio e della cultura è stato profondo e ampio. Essi costituiscono in gran parte quello che intuitivamente chiamiamo “natura umana”:
Uno degli esempi più importanti e meglio compresi è la proibizione dell’incesto. Il tabù dell’incesto è un universale culturale. Tutte le centinaia di società studiate dagli antropologi ammettono e, a volte, perfino incoraggiano il matrimonio fra primi cugini ma lo vietano fra fratelli e fratellastri. Pochissime società in epoca storica hanno istituzionalizzato l’incesto fratello-sorella per alcuni loro membri. L’elenco comprende gli inca, gli hawaiani, alcuni thai, gli antichi egizi, i monomotapa dello Zimbawe, gli ankale, i buganda e i bunyoro dell’Uganda, i nyanza del Congo, i zande e gli shilluk del Sudan e i dahomeani. Comunque, la pratica era ritualizzata e circoscritta alla famiglia regnante o ad altri gruppi di ceto superiore. Il potere politico si tramandava in linea maschile, e la poliginia era permessa agli uomini che, così, potevano procreare altri figli non incestuosi.
In tutte le altre culture l’incesto fratello-sorella è rigorosamente vietato. In quasi tutte le culture una personale avversione per la pratica è rinforzata socialmente da tabù e dal codice. Il rischio di avere figli disabili è chiaramente compreso. In media, ogni individuo ha da qualche parte sulle sue ventitrè coppie di cromosomi almeno due siti che portano geni recessivi che sono in certa misura difettosi e in casi estremi letali. In ogni sito il gene recessivo è presente su un unico cromosoma, e il suo omologo sull’altro è normale. Quando entrambi i cromosomi veicolano il gene difettoso, la persona portatrice sviluppa la malattia o, almeno, una forte probabilità di contrarre la malattia. Il difetto può manifestarsi perfino nell’utero, e il risultato è un aborto spontaneo. Se, invece, uno dei due geni è normale, esso annulla l’impatto del gene difettoso, e l’individuo cresce normale. Di qui il termine “recessivo”: il gene è nascosto in presenza del suo omologo normale “dominante”. Ormai si sa che i siti vulnerabili includono i geni codificatori di proteine e le regioni regolatorie del DNA fra i geni. Queste malattie, totalmente recessive o in buona parte recessive nel controllo genetico, comprendono la maculopatia degenerativa senile, la sindrome infiammatoria dell’intestino o morbo di Crohn, il cancro alla prostata, l’obesità, il diabete di tipo 2 e le cardiopatie congenite. Le conseguenze deleterie dell’incesto sono un fenomeno generale non soltanto negli esseri umani ma anche nelle piante e negli animali. Quasi tutte le specie esposte a una modesta o grave depressione da inincrocio utilizzano qualche metodo programmato biologicamente per evitare l’incesto. Fra le scimmie antropomorfe e non e gli altri primati non umani il metodo è a due strati. Anzitutto, nelle diciannove specie sociali di cui sono stati studiati gli schemi di accoppiamento, gli individui giovani tendono a praticare l’equivalente dell’esogamia umana e, prima di raggiungere una taglia adulta, lasciano il gruppo dove sono nati e si uniscono a un’altro. Nei lemuri del Madagascar e nella maggior parte delle specie di scimmie del Vecchio e del Nuovo Mondo, sono i maschi a emigrare, mentre in Africa, nelle scimmie colobo rosse, nei babbuini hamadryas, nei gorilla e negli scimpanzé, le femmine lasciano il branco. Infini, fra le scimmie urlatrici dell’America Centrale e del Sud, tutti e due i sessi si staccano. I giovani smaniosi di queste diverse specie di primati non vengono allontanati dal gruppo da adulti prevaricatori. Il loro allontanamento sembra, anzi, completamente volontario.
Fra gli esseri umani, si manifesta esattamente lo stesso fenomeno nella forma dell’esogamia quando le tribù si scambiano i giovani adulti, di solito le donne. Le conseguenze culturali degli scambi esogamici sono molteplici, e sono state analizzate scrupolosamente dagli antropologi. Tuttavia, per spiegare l’origine dell’esogamia come un istinto di alto valore genetico, basterebbe osservare lo schema universale seguito da tutte le altre specie di primati.
Quale che sia la sua origine evolutiva prima e per quanto altrimenti influenzi il successo riproduttivo, l’emigrazione dei primati giovani prima di raggiungere la piena maturità sessuale riduce la possibilità di inincrocio. Ma la barriera contro l’inincrocio è rinforzata da una seconda linea di resistenza, vale a dire il rifiuto di ogni attività sessuale fra gli individui strettamente imparentati che rimangono nel loro gruppo natale. In tutte le specie sociali di primati non umani di cui è stato attentamente studiato lo sviluppo sessuale, fra cui gli uistitì pigmei e i lentocebi del Sudamerica, i macachi asiatici, i babbuini e gli scimpanzè, i maschi e le femmine adulte rivelano l’”effetto Westermarck”: nell’attività sessuale respingono gli individui a cui sono stati strettamente legati fin da piccoli. Madri e figli non copulano quasi mai, e fratelli e sorelle tenuti insiseme si accoppiano molto meno spesso degli individui imparentati più alla lontana.
Questa reazione fu scoperta, non nelle scimmie antropomorfe ma negli esseri umani, dall’antropologo finlandese Edward A. Westermarck e registrata per la prima volta nel suo capolavoro Storia del matrimonio umano (1891). Nel frattempo l’esistenza di questo fenomeno ha trovato più di una conferma da numerosi fonti. Nessuna è più convincente dello studio dei “matrimoni precoci” a Taiwan condotto da Arthur P.Wolf della Stanford University e dai suoi collaboratori. I matrimoni precoci, un tempo assai diffusi nella Cina meridionale, sono quelli in cui le famiglie adottano bambine non imparentate, le allevano con i figli naturali in una ordinaria relazione fratello-sorella e alla fine le accasano con i figli. Il movente di questa prassi sembra essere quello di assicurare una compagna ai figli quando il rapporto tra i sessi squilibrato e il benessere economico creano insieme un mercato matrimoniale assai concorrenziale fra i maschi in cerca di donne nubili.
Per quattro decenni, dal 1957 al 1995, Wolf studiò le storie di quattordicimiladuecento donne di Taiwan impegnatesi a un matrimonio precoce fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. La statistica fu integrata da interviste personali con molte di queste “piccole nuore” o sim-pua, come si chiamano della lingua locale, e con i loro amici e parenti.
Quello in cui Wolf si era imbattuto era un esperimento controllato – anche se originariamente involontario – sulle origini psicologiche di un importante comportamento sociale. Le simpua e i loro mariti non erano imparentati biologicamente, e questo eliminava tutti i fattori immaginabili dovuti a una stretta contiguità come quella sperimentata da fratelli e sorelle nelle famiglie taiwanesi.
I risultati corroborarono inequivocabilmente l’ipotesi Westermarck. Quando la futura moglie era adottata prima di raggiungere i trenta mesi di età, di solito in seguito cercava di evitare di sposare il fratello de facto. Spesso i genitori dovevano costringere la coppia a consumare il matrimonio, in alcuni casi sotto minaccia di una punizione fisica, e questi matrimoni finivano con un divorzio tre volte più spesso dei “matrimoni fra adulti” della stessa comunità. Infine, procreavano quasi il quaranta per cento di figli in meno, e un terzo delle donne erano adultere conclamate rispetto a un dieci per cento di mogli nei matrimoni fra adulti.
In una meticolosa serie di analisi incrociate, Wolf e i suoi collaboratori identificarono il fattore inibitore chiave nella stretta coabitazione durante i primi trenta mesi di vita di uno o di entrambi i partner. Più duraturo e stresso era stato il legame durante questo periodo critico, più forte era l’effetto Westermarck in seguito. I dati consentirono di ridurre o eliminare altri fattori immaginaili che avrebbero potuto giocare un ruolo, fra cui l’esperienza dell’adozione, la situazione economica della famiglia ospitante, la ricchezza, l’età dell’epoca del matrimonio, la rivalità fra fratelli e la naturale ripugnanza per l’incesto che avrebbe potuto scaturire dal fatto di confondere la coppia con i veri fratelli di sangue.
Un involontario esperimento parallelo è stato condotto nei kibbutz israeliani, dove i bambini sono allevati negli asili nido a stretto contatto di gomito con i fratelli e le sorelle nelle famiglie normali. Nel 1971 l’antropologo Joseph Shepher e la sue équipe registrarono che su 2769 matrimoni di giovani adulti cresciuti in questo contesto, nessuno aveva coinvolto membri dello stesso gruppo di coetanei che vivevano insieme nel kibbutz dalla nascita. E non c’era stato neppure un caso conclamato di attività eterosessuale, anche se gli adulti non erano particolarmente contrari a questa pratica.
Da questi esempi e da una grande quantità di materiale aneddotico ricavato da altre società è chiaro che il cervello è programmato per seguire una semplice regola empirica: nel sesso disinteressati di quelli che hai frequentato da vicino nei primissimi anni di vita.
E’ possibile che negli umani non siano guidati dall’effetto Westermarck ma utilizzino semplicemente la loro intelligenza e memoria per riconoscere che l’incesto fra fratelli e genitori-figli crea una prole disabile? La risposta è no. Quando l’antropologa William H. Durham esaminò il credo di sessanta società su scala mondiale in cerca di una qualche forma di razionalizzazione delle conseguenze dell’incesto, scoprì che soltanto venti ne erano in certa misura consapevoli. I tlingit amerindi del Pacifico nordoccidentale, per esempio, capivano in modo elementare che l’accoppiamento tra parenti stretti produce spesso figli disabili. Altre società non solo conocsevano questa verità ma elaboravano anche teorie demologiche per spiegarla. I lapponi della Scandinavia parlavano del mara, la maledizione generata dalla coppia incestuosa, che si trasmetteva alla loro prole. Sulla stessa linea, i kapauku della Nuova Guinea credevano che l’incesto causasse un deterioramento delle sostanze vitali. Il popolo di Sulawesi in Indonesia aveva un’interpretazione più cosmica: ogniqualvolta si accoppiano persone che hanno rapporti conflittuali, come avviene fra parenti stretti, la natura precipita nel caos.
Curiosamente, mentre cinquantasei società su sessanta avevano motivi incestuosi in uno o più dei loro miti, soltanto cinque ne registravano gli effetti maligni. Un numero molto più grande attribuiva risultati benefici alle trasgressioni, in particolare la creazione di eroi e giganti. Ma anche in questo caso l’incesto aveva un che di speciale, di anomalo.
L’effetto Westermarck è una regola epigenetica della coevoluzione geni-cultura, nel senso che è la predisposizione innata degli individui a scegliere e trasmettere attraverso la cultura una fra le molteplici (nella fattispecie, due) opzioni possibili.
Il suo parallelo nella genetica medica sono i geni di “suscettibilità” del cancro, dell’alcolismo, della depressione cronica e di molte altre delle oltre mille malattie ereditarie note. Quelli che possiedono questi geni non sono assolutamente condannate ad acquisire quel tratto, ma in certi ambienti sono più portati a questo esito della persona media. Se sei geneticamente predisposto al mesotelioma e lavori in un edificio che trasuda polvere di amianto, sarai più portato dei tuoi colleghi a sviluppare la malattia. Se sei geneticamente predisposto all’alcolismo e ti accompagni a forti bevitori, sarai più portato a diventare alcolizzato dei tuoi amici meno predisposti geneticamente. Le regole epigenetiche di comportamento che influenzano la cultura, e sono nate per selezione naturale, agiscono nello stesso modo ma hanno l’effetto opposto. Esse sono la norma, e le forti deviazioni rispetto a queste regole sono di solito cancellate dall’evoluzione culturale o genetica o da entrambe. In questa ottica, sia le regole epigenetice della coevoluzione geneti-cultura sia la suscettibilità alle malattie coincidono con la definizine generica di “epigenetico” adottata dall’U.S. National Institute of Health: “I cambiamento nella regolazione dell’attività e dell’espressine genica che non dipendono dalla sequenza genica”, fra cui “sia i cambiamenti ereditabili nell’attività ed espressione genetica (nella progenie delle cellule o degli individui) sia le alterazioni stabili, a lungo termine, del potenziale trascrizionale di una cellula che non siano necessariamente ereditabili.”
In un campo completamente differente, un secondo caso di coevoluzione geni-cultura che è stato attentamente studiato è il dizionario dei colori. [....]

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