Cresce, viaggiando continuamente tra Europa e America, e acquisendo un orizzonte di vedute ben più vasto di quello dei passeggeri che continuamente transitano sulla nave. Vede, negli occhi della gente, luoghi che poi ricostruisce nella sua mente, assaporandoli nell’intimità più segreta. Per anni accumula, in questo modo, una sua ricchezza personale, senza sentire la necessità di verificare, fisicamente, l’esistenza di quei posti. Gli basta riversare sui tasti del pianoforte quell’infinità che il contatto umano gli ha trasmesso, generando una musica non riconducibile ad alcuno schema, ad alcuna regola. È il grande paradosso tra il limite materiale che uno strumento pone, e l’inesauribile creatività dell’artista, che può spaziare liberamente, facendo viaggi intercontinentali, o, addirittura, in un’altra dimensione, per ritornare, quando lo vorrà, nel mondo reale. È l’isolamento quasi aristocratico di chi può permettersi questo privilegio: dare un senso concreto alla vita attraverso l’astrazione più totale. Novecento non riuscirà mai a mettere piede sulla terraferma perché si sente perso all’interno di un mondo che non si è creato lui, un mondo confuso e intricato, spaventosamente infinito. Quando sta per fare il grande passo, improvvisamente, si blocca, risale i gradini e torna indietro. Ma la sua non è una sconfitta: dentro di sé, ha la sensazione che il suo destino si compirà proprio lì, sulla nave in cui è cresciuto. Morirà l’uomo, ma la sua fama, quella del più grande pianista che abbia mai suonato sull’oceano, riecheggerà per tutti quei luoghi di cui lui ha fruito attraverso le persone incontrate, che andranno in giro raccontando di uno straordinario musicista in grado di suonare note mai sentite prima. Eppure non è questa la sua aspirazione, non ha interesse per la gloria e il successo. Novecento, quelle note le suona per sé, perché rappresentano la sua storia: per tutta la vita ha conservato le immagini di persone sconosciute, vedendo in loro pezzi dell’esistenza sulla terra a cui si è sottratto. Per paura, certo, ma come non ritrovare, in lui, quello sgomento che ci coglie di fronte a una bellezza di cui non riusciamo a percepire i confini? E come non avvertire la fortissima e opposta tensione verso la voglia di soddisfare un desiderio? È lui stesso a chiedercelo: «Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi, solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A viverla…». Novecento si salva perché non si lascia sopraffare da questa dilaniante dialettica: realizza tutto se stesso, quello che è stato, quello che è e quello che non sarà mai, con il semplice gesto del dito che si posa su un tasto, mentre tutto il suo universo viene racchiuso in una nota, nella completezza della perfezione che dura un attimo e poi svanisce. Baricco ci accompagna fra le onde, delicatamente, con una scrittura che toglie il fiato, pagina dopo pagina, così come la melodia di un pianoforte rapisce nota dopo nota. L’ammonimento finale è rivolto a noi estranei che osserviamo, per l’ultima volta, Novecento, raccolto nell’intimità della sua nave, prima di morire: questa volta è veramente la fine, e dobbiamo andarcene. Tim Tooney, all’inizio, ricordava una frase del suo grande amico: «Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla». E questa è davvero una buona storia, che merita comunque, in ogni circostanza, di essere raccontata.
La Nave di Baricco: il Non Abbandono che Salva la Vita
Creato il 20 febbraio 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazinePotrebbero interessarti anche :
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