La necessità di un pareggio di bilancio

Creato il 15 luglio 2012 da Ilnazionale @ilNazionale

foto da “fanpage.it”

16 LUGLIO – Le riforme proposte con la recente spending review sono particolarmente gravose per i cittadini, con sacrifici imposti per quanto riguarda quei servizi pubblici spesso necessari. E’ assodato che la burocrazia statale e l’apparato burocratico degli enti pubblici sia una fonte di spesa, una sorta di “cancro economico” che sta divorando il bilancio pubblico italiano. Molti studiosi hanno rilevato che l’impiego pubblico nei cosidetti “enti inutili” fu, nel periodo postbellico, l’effettivo strumento per una forma italiana di Welfare State, che, sebbene non simile a quello americano, fu necessario e possibile subito dopo il secondo conflitto mondiale.

La politica italiana del dopoguerra, in particolar modo la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, fondarono in parte la loro propaganda sull’assunzione nel pubblico, in quel periodo degli anni ’50 e ’60 in cui tutti potevano trovare un impiego, e pareva che la società avesse raggiunto la sua perfezione. L’americanizzazione della cultura cominciava in quegli anni, ma l’economia era ancora molto distante da quella americana, sebbene certamente non vi fosse in Italia il sistema economico tipicamente comunista, presente in tutto l’Est Europeo.

Quando i miti americani nascevano e si diffondevano nell’Europa dell’Ovest, l’economia era sempre più forte, e il PIL italiano sembrava, come quello degli altri stati europei, destinato a volare alle stelle. L’assistenzialismo era uno dei termini chiave dell’economia, e l’impiego pubblico divenne, soprattutto per le popolazioni del Meridione, la principale ambizione. La macchina statale e gli uffici pubblici crescevano a vista d’occhio, allargandosi sempre di più e chiamando al loro interno sempre più dipendente che avevano il sogno del “posto fisso”.

E non è più un segreto che in questo sistema si crearono sempre più privilegi, almeno nelle alte cariche: buoni pasto doppi rispetto a quelli dei dipendenti pubblici, retribuzioni altissime ai dirigenti e auto blu, privilegi per aerei e viaggi e molti altri. Questo sistema è oggi finito, forse. Il desiderio del governo di smantellare un simile apparato, divenuto insostenibile, è giusto e legittimo, e anzi avrebbe dovuto essere attuato già molto tempo fa. Ma il metodo con cui compiere questa trasformazione deve essere ponderato.

L’ultima riforma ci dice che saranno tagliati tribunali e ospedali, e primari, e che coloro che hanno quarant’anni di contributi, nel pubblico, saranno messi in prepensionamento con l’80% dello stipendio base. Si ha quindi agito in maniera sconsiderata, sebbene il Presidente Monti abbia detto che queste riforme “non sono tagli lineari”. Le condizioni della nostra sanità erano già pessime, soprattutto per la mancanza di posti letti e il sovraffollamento delle strutture sanitarie e la lentezza della giustizia è diventata ormai proverbiale. Questi ulteriori tagli sono il colpo di grazia ad un sistema che prima stava in piedi a fatica e che adesso è definitivamente crollato.

C’è una contraddizione evidente. Prima il governo afferma di avere come priorità il miglioramento dell’iter giuridico e la velocizzazione dei processi, e poi invece chiude non si sa quanti tribunali per poter limitare le spese. Quando inoltre si parla di limitare gli sprechi nella sanità, ciò non significa chiudere gli ospedali, ma piuttosto ricollocare o tagliare quel sovrannumero di dependenti che popolano gli uffici, in particolar modo, sia detto con le statistiche alla mano, nel Sud Italia, dove gli sprechi in questo settore e in molti altri settori pubblici sono a dir poco sconsiderati. I primari sono necessari, e anzi bisognerebbe aumentare il loro numero, così come quello dei magistrati e dei professori viste le condizioni dei tribunali e dell’istruzione pubblica. Ciò che pesa è invece quel “popolo” degli uffici pubblici che non hanno un’effettiva funzione e che non possono essere mantenuti tali in un regime di bilancio di questo tipo.

Il pareggio di bilancio è infatti una svolta fondamentale, che l’Unione Europea ci impone, giustamente. Un metodo con cui raggiungerla sarebbe piuttosto la lotta all’evasione, che comunque è conseguita con fermezza dall’attuale governo, sebbene anche questa sia un’operazione più ardua di quanto si possa immaginare. I problemi sono quindi molti, e la crisi, quella materiale, si fa sentire ora, piuttosto che due anni fa, quando cominciava invece quella finanziaria. Il Presidente Berlusconi diceva a questo proposito che “gli italiani vivono al di sopra del loro effettivo livello economico”. Fino a qualche mese fa, o forse fino a un anno fa, la crisi era soltanto di numeri, dei valori che, nelle borse mondiali scendevano, come guidate da qualche forza nascosta che si cerca assiduamente di scoprire, ma ora il suo impatto è nella realtà, nel quotidiano, con le spese che diminuiscono e i consumi che calano.

Tutto questo è accompagnato da una pubblicità mediatica terroristica, per cui sembra che l’unico orizzonte possibile sia la catastrofe economica: le fabbriche che chiudono, gli uffici che licenziano, i pubblici dipendenti ricollocati, le borse a picco. Tutto sembra far pensare ad un’apocalisse economica. L’aumento dell’IVA e questa ulteriore manovra sono un altro colpo mortale all’economia italiana e alla fiducia che i cittadini ripongono in coloro che ci rappresentano, una fiducia che non esiste più. E dietro i sorrisi e le partite di calcio, gli shows che vorrebbero mascherare il dolore degli italiani, le corde si fanno sempre più tese.

Enrico Cipriani


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