Ultimamente di scuola parlano un po’ tutti. E come spesso accade, quando a parlare di una cosa sono tutti, ciò che si perde – oppure volentieri si distorce – è la voce di chi a scuola ci lavora: gli insegnanti. Alessandro Banda – autore di La verità sul caso Caffa, Come imparare a essere nulla, L’ultima estate di Catullo, (questi alcuni dei suoi titoli precedenti) – insegna da molti anni al Liceo delle Scienze Umane di Merano e la sua cognizione è dunque assai fondata. Chi avrà la fortuna di accostarsi alla sua ultima fatica (Il lamento dell’insegnante, Guanda) è bene però che deponga in fretta aspettative modellate su scontate (e lamentose) rappresentazioni di maniera. Il “lamento” del titolo, infatti, non gli appartiene (egli afferma, invece, di amare il proprio lavoro), ma costituisce lo sterminato cahiers de doléances che lo scrittore si è deciso ad attraversare per dimostrare che non può essere superato, giacché è la scuola stessa – esistendo e perpetuandosi nella forma che conosciamo – a fornire l’occasione della sua incessante e mai terminabile stesura.
In un articolo comparso recentemente sul sito della rivista Internazionale, Christian Raimo ha riassunto così le due tendenze di pensiero principali inerenti l’istituzione scolastica: da un lato ci sarebbero i fautori “dell’innovazione come panacea di tutti mali, dei tablet in classe, dei prof 2.0, dei test Invalsi come unico metro di misura dell’esistente”; dall’altro quelli che invece rimpiangono lo “studio come si affrontava una volta” e quindi parlano “della missione salvifica degli insegnanti, degli studenti svogliati e distanti da riavvicinare alla conoscenza”. Due punti di vista opposti, come si vede, tendenti però entrambi a naufragare in una retorica comunemente inservibile per comprendere sul serio la realtà delle cose e, quindi, inadatti a farci intravvedere la strada per il miglioramento.
Ora, è proprio l’idea stessa del “miglioramento” – che le cose cioè non solo possano, ma anche debbano migliorare – il soggetto polemico del libro di Banda, che dunque si pone in una zona marginale rispetto al dibattito contemporaneo sulla scuola per affermare, al contrario, un punto di vista ironicamente aristocratico, posto cioè alla confluenza della concezione dell’eterno ritorno di Nietzsche e del sorridente scetticismo di Tomasi di Lampedusa: “A scuola il tempo non esiste. Ci sono sempre gli stessi rituali, gli stessi cerimoniali, gli stessi discorsi, le stesse riunioni, le stesse circolari (sarà un caso che si chiamano proprio così?), gli stessi scrutini, gli stessi esami, gli stessi orari. Le stagioni non si avvertono. Ci sia la luce al neon o vi penetri il forte sole di giugno, le aule sembrano pietrificate. Anche se tutto cambia, tutto è uguale. O meglio: tutto deve cambiare, perché tutto resti uguale”.
Così, anche se il libro punta all’enunciazione di una “tesi” nominalmente molto forte, recuperando e adattando il caustico disincanto che Hans Magnus Enszenberger rivolgeva alla televisione, il percorso che vi prelude – spaziando in una fitta foresta di riferimenti letterari che vanno da Orazio a Thomas Bernhard – è costruito mediante un intarsio di esempi che mostrano, più che dimostrare, quel che perciò continua a rimanere solo un tentativo (un essay, nel senso di Montaigne) di avvicinamento allo sfuggente segreto dell’insegnamento e dell’apprendimento (due facce della stessa medaglia).
Dichiarare, infatti, che le lamentazioni accumulate da millenni di frustranti vicende scolastiche (e a lamentarsi sono stati tutti: docenti, discenti, genitori e, da ultimo, anche i primi ministri illusi di poter varare riforme sulla “buona scuola”) risultano del tutto inutili, visto che saranno comunque destinate invariabilmente a ripetersi, significa anche lottare per circoscrivere in quelle vicende un nucleo miracolosamente intatto, entro il quale – pur nell’apparente fallimento universale – la trasmissione del sapere che si svolge a scuola (malgrado la scuola!) riattiva di tanto in tanto quegli “sparuti incostanti sprazzi di bellezza” (come recitava Jepp Gambardella ne La grande bellezza) che perforano la noia dei giorni passati tra i banchi.
Proprio una valutazione positiva del sentimento della noia è posta a suggello di quest’opera singolare – intelligente, colta, scritta benissimo – che purtroppo (proprio perché intelligente, colta e scritta benissimo) temiamo non andrà a intaccare la spessa coltre di chiacchiere sul mondo della scuola. La noia, scrive alla fine Banda, è “il più sublime dei sentimenti umani: non poter essere soddisfatti di nessuna cosa terrena, considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio e il numero e la mole meravigliosa dei mondi – e trovare che tutto è poco e piccolo rispetto alla capacità del proprio animo; considerare l’universo infinito e sentire che la nostra immaginazione è ancora più grande, più vasta, più estesa, di quell’infinito universo, che ci annoia – tutto ciò è reso possibile da questo eccelso sentimento, tipico delle menti più fini – e tipico delle scuole, anzi compagno fedelissimo di quasi ogni momento e aspetto delle scuole, di ogni ordine e grado”.
Corriere dell’Alto Adige, 4 ottobre 2015 (pubblicato in una versione leggermente abbreviata con il titolo “La noia dell’insegnante: Banda e la scuola che non cambia”)