Quello appena enunciato non è tuttavia un gioco di parole: la libertà non è oggettuale, non si possiede, nè tantomeno si può cedere. La libertà è una forma particolare di essere-nel-mondo e quindi si palesa attraverso gli enti (gli uomini) che, grazie ad essa, hanno la possibilità o il dovere di comportarsi in un determinato modo. In verità, il primo caso è solo illusorio; concordemente con il pensiero di Sartre, l'uomo non ha alcuna possibilità nè di scegliere, nè di rinnegare la libertà. L'uomo è costretto, una volta consapevole del suo stato, ad essere libero sino alla sua morte. Il sol fatto di poter pensare l'ipotesi opposta è frutto di quella stessa libertà che permette di essere colta.
Se Sartre diceva che l'uomo è condannato ad essere libero in quanto è chiuso nella gabbia della libertà stessa, noi possiamo giungere alla conclusione che non si è liberi di essere liberi, poichè se ciò fosse falso e, se quindi l'uomo avesse la possibilità di usare la propria libertà contra se stessa, egli starebbe innanzi tutto basando il suo attacco sul medesimo esercito designato a vincere una guerra contro i medesimi soldati. Per poter, teoricamente, rinunciare alla libertà, bisogna prima vivificarla con la consapevolezza e poi, tramite il potere che essa conferisce, cercare di definire una condizione ove tale potere non ha più alcuna valenza. Ovviamente ciò determina un circolo vizioso senza alcuna via di fuga.
Ma perchè, in fin dei conti, preoccuparsi così tanto dell'impossibilità di rinnegare la libertà? L'uomo ha sempre lottato per la sua affermazione, al punto da tributarle ogni forma di celebrazione: artistica, poetica, musicale, filosofica, etc. Pur tuttavia, ad un certo punto della sua riflessione, l'uomo "libero" (caricato, cioè, con uno zaino capiente e pieno di utili strumenti, e quindi anche pesante) si è misurato con il trauma dello sforzo necessario per poter continuare ad essere libero, poichè l'identificazione uomo-libertà, essendo esistenziale, ha ipso facto trasformato l'essere-uomo in essere-uomo-libero e quindi, il non essere-uomo-libero in non-essere-affatto. Prendere atto di ciò è disarmante; il "non-potere" viene distrutto nella sua essenza da un "potere-e-quindi-dovere", annullando anche l'illusione psico-drammatica di uno stato soggettivo nel quale il soggetto si poteva prima barricare.
Un depresso che viene posto di fronte alla condizione di poter-non-essere-depresso, così come uno schiavo che, liberato, viene di fatto reso irreversibilmente libero in quanto non-più-schiavo, è come il Tommaso dei Vangeli che, vedendo e toccando, è ormai costretto a credere, a meno di non distruggere tutto se stesso pur di non accettare ciò che si palesa di fronte a lui. Ecco perchè la libertà, fascinosa e attraete, se-duce per legare, così come le sirene che, nel loro canto nascondevano l'ineluttabilità della condizione di poter e quindi dover udire. Ulisse resiste, ma facendo ciò è comunque vittima di quel canta ammaliatore, poichè rimanendo legato all'albero della nave egli riconosce e ammette la sua impossibilità di sottrarsi liberamente a quel pericolo.
Concludo osservando (e, sperando di fare anche osservare) che la libertà è ingiudicabile, ovvero si sottrae a qualsiasi giudizio di valore. Essa non è nè positiva, nè negativa; non si situa nè nel versante del bene, nè tantomeno in quello del male. Data la sua natura, essa è oltre ogni dualismo in quanto, solo grazie ad essa, il dualismo può aver luogo. "Essere condannati ad essere liberi" non ha quindi alcuna accezione assimilabile ad un giudizio: essa è l'osservazione priva di voce che l'uomo "vive" di fronte ad un non-luogo ove perfino la sua innata "condizione linguistica" non riesce a regnare con pienezza.