Sotto le coperte, il lettino si popolava di folletti buffi e graziosi che si sfidavano in una gara molto particolare: spazzare via la tristezza del giorno. Spuntavano dietro un cespuglio o sotto un fungo, si lanciavano dai rami bassi degli alberi, scorrazzavano nello stagno a bordo di larghissime foglie.
Era la notte degli gnomi.
Gli angoli del materasso diventavano i confini di un mondo fantastico, il cielo trapuntato di stelle lucentissime e sorridenti. “Ma quante sono?”, si chiedeva con meraviglia per poi rabbuiarsi al pensiero del mistero di quel magnifico e imperscrutabile ricamo, che la faceva sentire uno zero tra gli infiniti numeri dell’universo. Ma era solo un attimo. Il tappeto di foglie brune croccava sotto i passi degli gnomi e delle fate che si rincorrevano festanti, si aggrappavano alla sua vestaglia e la invitavano ad unirsi a quel girotondo di magia. Martina chiudeva gli occhi e si lasciava abbracciare dalla felicità.
Fu in una di quelle notti che intravide uno gnomo vestito da cacciatore. Non aveva però con sé il fucile: solo un po’ di pane, in una mano, che presto sbriciolò per gli uccelli del bosco; alle orecchie, le cuffie della radiolina che fuorusciva da un taschino dell’eskimo beige.
Martina riconobbe subito quel sorriso distante, molto simile al suo. Quello gnomo era suo padre. Gli occhi erano uguali a suoi, cangianti dal verde mare al castano chiaro, a seconda dei riflessi del sole. In quelli di Martina si leggeva il dolore per quel vuoto ingombrante che il ricordo non riusciva a colmare. Che nessuno poteva capire.
Forse per questo gli gnomi avevano portato lì suo padre.
Per rassicurarla.
Con lo sguardo seguì quel passo lento che si arrestò all’ombra di un albero. Lo gnomo estrasse il giornale dalla tasca posteriore dei pantaloni, si accomodò sul prato e cominciò a leggere.