Come uno scoglio affiorante e insidioso, popolato di sirene, il fuoco è acceso in un punto indistinguibile, nel mezzo della campagna; raggiunge i miei sensi, attirandoli uno dopo l'altro con l'eleganza seduttiva di una geisha. Guidato dal quel fragore di aromi, colgo d'un tratto il bagliore vivido di una fiamma allegra: si staglia sul proscenio della notte, prorompe violenta e viva. Le sue molte lingue guizzano sinuose, con la voluttà di una dea pagana che danza al ritmo stesso della lussuria. Gli occhi ne sono annichiliti, la mia e la loro volontà annullate: avanzo in linea retta, incurante dei rovi e degli ostacoli del suolo, dei quali la vista, stregata dall'igneo incantesimo, più non mi avverte. Ed ecco, sento quella musica ancestrale che armonizza il vigoroso contorcersi delle fiamme: un ritmo pulsante e primitivo, che sorge dal petto della terra selvaggia, fatto di schiocchi, crepitii, sibili liquidi di legna bagnata che trasuda l'anima nella sua dannazione. Quando sono vicino la pelle del viso si scalda al piccolo sole terrestre, rosso e rovente. Non mi curo di tutto quel calore, che non è più carezza, ma in un istante diventa un ruvido graffio, ed è già dolore; mi chino, mi accosto, mi perdo nell'ipnotica danza di una tribù di femminee appendici voraci, osservo il loro pasto furioso. Grumi densi di fumo mi riempiono il naso, un gusto acre scende in gola e mi costringe ad inghiottire.
Selvaggia è la notte, regno del possibile, frattale di percezioni illimitate; nel suo cielo invisibile volteggiano e si sovrappongono nuvole di probabilità, che inondano il presente di nuove strade, proibite ma dai cancelli socchiusi, insidiosi ed invitanti percorsi verso altre vite. Intersezioni di realtà discordanti, che il giorno separa: ma lontani dello sguardo solare i loro confini si cercano, si strofinano nell'oscurità, si compenetrano e si fecondano di esistenze alternative in cui anch'io, di nascosto, potrei facilmente scivolare. Contemplo la danza dei liberi universi e mi nutro del loro fuoco selvaggio, mentre quello che arde davanti a me consuma anche il mio corpo, ustionandomi la pelle delle mani e del viso, e ne trae nuovo vigore. Per un attimo prima di allontanarmi, nel balzo istintivo e irrefrenabile che mi salva, sono anch'io cannibale di me stesso, mentre inghiotto l'aroma e saggio il gusto delle mie stesse cellule, sfaldate nella mia bocca dall'intenso calore.
Mi ritraggo, un passo dietro l'altro, gli occhi ancora persi nell'abisso vorticante, e passo la lingua sulle labbra, screpolate e dolenti. Con voluttà aspiro il puzzo zolfino dei miei peli strinati da quell'incauto contatto. Grida, rabbiosa e delusa, la mente: piange, strepita, implora. Invano. Come un Ulisse, è avvinta al palo della volontà di un corpo meschino, che schiavo della propria incolumità la trascina via.
Torno nel mare buio, trascinando naufraghi i miei sensi traditi: ma l'orizzonte ferisce l'incanto di quel viaggio sconfinato. Albeggiano, ancora incerte, le luci di un'Itaca sempre meno lontana, sempre meno irreale. Al sorgere di un sole qualunque, chiara e impietosa la luce ordinaria biancheggia sull'angolo familiare di un giardino e di un pezzo di muro, spezzando l'incanto della notte sirena.
Questo post partecipa a modo suo al Carnevale della Matematica #79, dove si parla di matematica e libertà. Soprattutto però è frutto di una discussione con +Annalisa Scassandra sull'importanza e la potenzialità delle descrizioni in narrativa, e di come la dimensione sensoriale possa influenzare la dinamica di una storia e delle sue interazioni.Tutto il resto di questo "elogio della descrizione" lo trovate qui
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