La nuova pittura tedesca – Documenti d’Arte del Novecento MAE Milano Arte Expo con Fondazione Marconi

Creato il 04 febbraio 2013 da Milanoartexpo @MilanoArteExpo

Fondazione Marconi aderisce al progetto Documenti d’Arte del Novecento di Milano Arte Expo con una vasta mole di materiale storico che verrà messo on line. Altre gallerie e fondazioni stanno unendosi a questo cospicuo e progressivo piano di lavoro. Per chi fosse interessato a collaborare: milanoartexpo@gmail.com. Il testo che segue è stato pubblicato nel fascicolo Studio Marconi Documenti n° 8 del 1982.  La nuova pittura tedesca – “Una buona opera d’arte è nazionale, ma l’opera d’arte nazionale è brutta”. Di Johannes Gachnang - All’inizio: Berlino. Lautréamont, Artaud così come artisti quali Derain, Balthus e Gruber o ancora Fautrier vi erano, all’inizio degli anni Sessanta, al centro delle discussioni. Di questo stato d’animo, la retrospettiva Jean Paulhan à travers ses peintres (Parigi 1974) rese conto in modo affascinante: sottolineò l’eccezionale continuità, la concentrazione che costituiscono per noi oggi le caratteristiche esemplari di questo periodo — della nostra epoca. Le discussioni giravano ugualmente intorno alla pittura di Stringberg e di Schoenberg, ai disegni di Hill e di Josephson, opere che la mia generazione scoprì per conto proprio, contemporaneamente a L’entrata di Cristo a Bruxelles di Ensor, in occasione dell’esposizione che il Consiglio d’Europa consacrò alle Sources du XX siede (Parigi, autunno 1960). Questa eccezionale esposizione mostrava, quasi in tutta la sua estensione, l’apporto creatore degli anni 1884-1914. Capitale tradizionale delle arti, Parigi, lo si vede, continuava in quegli anni a giocare il suo ruolo, alimentava da noi il dibattito artistico e sembrava incontrare gli interessi specifici tedeschi. >>

Senza dubbio, tuttavia, la situazione delle arti a Parigi alla fine degli anni Cinquanta rispondeva male ai nostri bisogni. Eccettuando alcuni artisti marginali come Wols, Michaux, i membri del gruppo Cobra o ancora Chaissac, Dubuffet e la sua Compagnie de l’art brut, l’Ecole de Paris e le conquiste dell’Arte Informale (il tachismo), non significavano molto per noi e noi non ne ricevemmo impulsi decisivi; ciò può essere spiegato almeno fino a un certo  punto dall’apparizione in Europa, alla fine degli anni Cinquanta, dei quadri radicali di Jackson Pollock e degli espressionisti astratti americani.

Così i «vincitori» introducevano nel campo intellettuale nuovi atteggiamenti e nuovi modi di pensare — un nuovo ordine di cui New York era il centro. La Germania e l’Europa intera furono, all’indomani della seconda guerra mondiale, divise, com’è noto, in due blocchi, quello dell’Est e l’altro dell’Ovest, che marcano le due zone antagoniste dove si esercita un potere tanto politico che culturale. Questa scissione mise naturalmente una città come Berlino nell’impossibilità di giocare l’importante ruolo integratore che era stato suo durante il primo terzo di secolo. Questo a dispetto di tutto ciò che fu tentato in un senso come nell’altro. Venne tolta ben presto ogni possibilità di esprimersi alle voci progressiste che, come quella del grande architetto Hans Scharoun (1893-1972) costruttore della Filarmonica e della Biblioteca Nazionale di Berlino, tenevano ancora un discorso orientato verso l’Europa.

Tutto questo allargò ulteriormente il fossato. Le conseguenze tuttavia non apparirono in tutta la loro estensione che negli ultimi anni e saltano agli occhi proprio oggi. Queste conseguenze sono da poco al centro delle discussioni e uno sforzo viene fatto non solo per rimetterle nel contesto europeo, ma anche per risolverle. Questa apertura sembra, per ragioni pratiche, meno difficile sul piano politico — anche se i risultati ottenuti finora non sono completamente convincenti — che sul piano culturale e intellettuale, dove le strutture sono estremamente complesse e fragili.

Dopo il trauma del nazionalsocialismo la situazione culturale era a Berlino e in tutta la Germania estremamente precaria: ci si trovava isolati e senza riferimenti. La possibilità di ricominciare da zero non fu colta e restò un sogno. La ricostruzione proseguì in ognuna delle due nuove sfere di influenza (U.S. A. – U.R.S.S.) senza alcun tentativo di concertazione: ogni contatto sembrava indesiderabile. A Berlino Ovest e in tutta la Germania occidentale la maggior parte degli artisti si aprì pure all’influenza dei «vincitori »: Parigi dapprima, New York e l’America poi.

Questo massiccio apporto straniero fu fatale per la maggior parte dei giovani talenti che si trovarono così disorientati, senza direzione, senza messaggio, senza veduta d’insieme sulla propria pratica artistica. L’arte informale praticata come stile, il tachismo come procedimento, sembravano alla fine degli anni Cinquanta in Europa la condizione necessaria e sufficiente di ogni nuova pittura moderna e le si trovava applicate un po’ ovunque malgrado la differenza delle mentalità. Questo modo di procedere si arricchì poi in relazione agli apporti dell’espressionismo astratto e si rinnovò sotto l’influenza della Pop Art. Rari erano quelli che, in questo flusso di immagini, riuscivano ancora a trovare e a mantenere un punto di vista proprio, a difendere una posizione personale della loro produzione pittorica: occorre ricordare le eccezioni costituite da alcuni artisti fuori del comune come Asger Jorn, Constant, Emilio Vedova o Arnulf Rainer. I l pittore Ernst Wilhelm Nay (1902-1968) e lo scultore Hans Ulmann (1900-1975) costituirono nella Germania dell’Ovest due altre eccezioni esemplari. L’uno e l’altro difesero con rigore e disciplina la loro libertà artistica, riuscirono a mettere in luce la sorgente e le radici del loro essere, a sottometterle alla riflessione e a renderle visibili nelle opere. Poco a poco riusciamo finalmente oggi a vedere e apprezzare le opere di questi artisti, ora che siamo liberi dalla mentalità spiacevole degli anni Cinquanta e soprattutto dal modo formalista con cui, seguendo gli Americani, si considerava la pittura — questo   atteggiamento occultò molte opere e ne fece sottovalutare l’importanza, ne svuotò l’essenza che veniva confusa con la presenza materiale, fisica del quadro.

La parola d’ordine era: «What you see is what you see» (Frank Stella). «Una buona opera d’arte è nazionale, ma l’opera d’arte nazionale è brutta», paradosso dovuto a un artista danese. Bisognerebbe ripensarci un giorno, come fecero allora con serietà gli artisti qui rappresentati. Arriviamo così a ciò che è, da molti anni e senza che sia mai detto apertamente, all’origine dei diversi errori di interpretazione da parte dei critici. Il malinteso ha preso, anche in questi ultimi mesi a causa di un trattamento sfumato e differenziato del problema, un giro polemico estremamente violento. Nessuno era al riparo dagli attacchi e certuni non esitarono a diffamare alcuni nostri artisti e a mettere in questione la loro integrità artistica, non senza aver visto da dove soffiava il vento.

Essendo New York verso il 1960 il centro della vita artistica, era facile per gli artisti dichiarare che la miglior arte possibile fosse un’arte internazionale e che, curiosamente, gli artisti più interessanti dell’epoca lavorassero in America. Sebbene gli artisti e i critici di questa generazione non abbiano dimenticato di citare i costruttivisti russi, la loro concezione di un’arte internazionale deve molto al buon vecchio Bauhaus tedesco che essi volevano mettere in questione e sorpassare. Queste posizioni che passarono per «forti» sono oggi seriamente compromesse e non hanno nessuna possibilità di mantenersi, perché altri atteggiamenti e altri modi di pensare hanno fatto la loro apparizione. Se si considerano gli ultimi sviluppi e le ultime tendenze dell’arte tedesca, bisogna ben constatare che lo stile internazionale al quale si tendeva è attualmente incapace di fornire impulsi decisivi, sprovvisto com’è di ogni teoria o vista d’insieme e di tutto ciò che avrebbe permesso un lavoro in comune.

II

È agli inizi degli anni sessanta che in Germania dell’Ovest e soprattutto a Berlino e a Dusseldorf, una nuova generazione di artisti pervenne a una coscienza di sé che non si credeva più possibile e ritrovò attraverso vie nuove una sua certa identità. Si riuscì a resistere energicamente alle influenze e alle mode, perché era il solo modo di permettere a una nuova immagine del mondo di crearsi. L’impresa non contava certo su un successo rapido, fosse anche solo di stima. Lunghi anni di lavoro furono necessari prima che i suoi contorni si precisassero. Bisogna tener conto anche di certi aspetti essenziali di questi primi sforzi. Il problema qui è di schizzare un nuovo quadro dell’evoluzione recente della pittura tedesca, di descriverne, facendo leva su adeguati presupposti, i l cammino che, dopo i primi balbettìi, non ha smesso di misurarsi con un ambiente al quale rimanevano tuttavia estranei.

A Berlino i primi a lavorare nel senso che abbiamo indicato furono Georg Baselitz e Eugen Schönebeck, che seguivano da vicino Antonius Hoeckelmann; vennero in seguito i contributi di Markus Lupertz e di Ralf Winkler, Alias A.R. Penck. Quest’ultimo aveva già avuto l’occasione di far parlare di sé in Germania dell’Ovest quando lavorava a Dresda e a Berlino Est. Nella stessa cerchia incontriamo anche Michael Werner, mediatore e intermediario ma anche eccellente amico e appassionante   interlocutore. Parallelamente al movimento berlinese, altre forze si affermavano all’Accademia di Belle Arti di Dusseldorf intorno alla persona di Joseph Beuys, il cui esempio e insegnamento raccoglieva discepoli.

Il tema del dibattito berlinese ricevette così nuovi prolungamenti. I metodi e i mezzi messi in opera sembrarono ben presto più moderni e più attuali e vi si scorse un modo tipicamente tedesco di trattare lo stile internazionale. Accanto a Joseph Beuys lavoravano tra gli altri Gerhard Richter, Sigmar Polke, Palermo, il più giovane di questa generazione e per questo sempre un po’ più in disparte, pur senza smettere di essere in gioco, quindi Joerg Immendorff.

Per Kirkeby e Anselm Kiefer subirono il richiamo di queste nuove energie che segnarono il loro cammino — questo a dispetto del carattere del tutto diverso del punto di partenza di questi due artisti. Intorno a Beuys, a Dusseldorf, si lavorava più in gruppo; l’Accademia delle Belle Arti vi si prestava per il suo clima e forniva l’occasione di numerose manifestazioni e azioni, Questa base faceva completamente difetto a Berlino, dove si lavorava individualmente, chiusi in se stessi e isolati dal grande credo comune.

I primi tentativi di apertura e i primi appelli lanciati al mondo restarono senza eco; oggi certo non susciterebbero più alcuna opposizione. Le prime manifestazioni importanti del movimento furono le due esposizioni di Eugen Schoenebeck e di Georg Baselitz, Pandàmonium I e Pandàmonium II, esposizioni che furono ogni volta occasione di un manifesto (1961 e 1962). Era un grido giovanile, gli artisti vi manifestavano i l dolore di vivere in questo tempo e in queste condizioni e si richiamavano nella loro rivolta a Lautréamont e Antonin Artaud.

I riferimenti facevano difetto ovunque, la continuità era interrotta a tutti i livelli, niente più alimentava la vita dello spirito dopo un lungo periodo senza cultura ed è proprio una cultura che con energia la nuova generazione reclamava. Si cercava e ci si doveva accontentare di ciò che si poteva trovare, si sarebbe scelto più tardi. Come abbiamo detto, la scissione, la rigorosa divisione politica e ideologica non sussisteva solo per la Germania ma per l’Europa intera; il tedesco si ritrovava tuttavia più di ogni altro diviso, il suo paese divenne quello della schizofrenia. Il risveglio lasciava i tedeschi e gli europei con questa domanda: fino a che punto potevano sentirsi legati alla Germania dell’Est? Dovevano considerarsi come «europei dell’Ovest»? Molti artisti tedeschi di questa generazione erano originari della parte Est del paese, ma quando vennero a stabilirsi all’Ovest, non rinnegarono affatto le loro origini: riconobbero sempre un debito nei confronti dei loro primi orizzonti culturali.

Fino a due anni fa la decisione di passare all’Ovest era piuttosto mal accolta o almeno non si era preparati ad accettare il sistema di riferimenti degli artisti dell’Est, soprattutto quando questi ne facevano esplicito richiamo. Ora si è più attenti, da qualche tempo ormai, al vigore dello sviluppo degli artisti che si sono fatti conoscere agli inizi degli anni sessanta, si apprezza soprattutto la libertà che hanno saputo conquistarsi e di cui, dall’inizio, un piccolo gruppo ha colto la portata.

Con questa libertà la pittura tedesca ha ritrovato, mi sembra, una base sana e duratura, come dimostrano i risultati recenti qui esemplificati. Il quadro più chiaro e più diretto dell’epoca che stiamo evocando vide la luce nel 1965: si tratta di Die grossen Freunde (I grandi amici) di Georg Baselitz. Circa nello stesso tempo i Beatles facevano la loro apparizione cosi come i Rolling Stones, il Flower   Power e Cassius Clay alias Muhammed Ali, ma non si era che alla vigilia della Rivoluzione Culturale cinese e del maggio ’68, due avvenimenti che dovevano segnare una nuova rottura nel nostro modo di pensare e di agire, sconcertare e dirottare la mia generazione, imporle di prendere decisioni per l’avvenire. Questo quadro — questo manifesto — di Georg Baselitz era una presa di posizione contro l’estetica migliorata dal rendimento, d’ispirazione anglosassone. Il pittore qui tentava di riorientare il dibattito culturale in Germania e di fornirgli nuove basi.

Ma la sua voce non potè farsi ascoltare nel concerto euforico e ingannevole degli anni sessanta — le «silly sixties», come si dice oggi, a posteriori. I Weltbilder di A.R. Penck e i quadri di Markus Lupertz conobbero nello stesso momento la stessa sorte. Non ci si poteva arrestare alle dichiarazioni del secondo: «Il ditirambo che ho scoperto rende visibile il fascino del XX secolo». Non si sapeva che farsene di queste provocazioni intellettuali. Queste hanno mantenuto qualcosa di offensivo e di ingiurioso, il che non diminuisce tuttavia i propositi e non compromette la loro autenticità.

Le libertà che si erano conquistati con la lotta permisero agli artisti innovatori di sorpassare le dichiarazioni di principio e di apportare, passati gli anni sessanta, un contributo decisivo alla pittura dei nostri tempi,  senza perdersi in troppo sottili questioni di stile. La battaglia degli stili {Stilkrieg) descritta da una tela di  Immendorf (1980) non ha mai avuto luogo.  Nel corso degli anni sessanta un movimento si è dunque delineato a Berlino e a Dusseldorf — senza attirare l’attenzione e quasi a porte chiuse —, un movimento i cui progetti, produzioni e metodi hanno acquisito da tempo un carattere d’evidenza e la cui fecondità è abbondantemente illustrata dalle nuove iniziative che negli ultimi anni hanno in Germania fatto uscire la pittura dai sentieri battuti.

A proposito di questi due campi di forza e dei contesti in cui si inscrivono, molto resta ancora da scoprire. Un primo tentativo in tal senso fu fatto dall’esposizione Der gerkruemmte Horizont (L’orizzonte curvato — L’arte a Berlino 1945/1967) che io stesso presentai l’anno scorso all’Accademia delle Belle Arti di Berlino. Queste pagine costituiscono il prolungamento di ciò che difesi allora, senza essere compreso dai critici o dagli storici. Sembrava piuttosto che venissi a turbare un’immagine già fissata e la reazione non mi meravigliò, perché in ciò che si pensa e si scrive oggi ci si ripiega — la maggior parte del tempo — sulle genealogie, le cronologie e le divisioni didattiche ammesse, senza rimettere in questione queste gerarchie e questi quadri sempre riduttivi. (Traduzione: Elio Grazioli)

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MAE Milano Arte Expo -milanoartexpo@gmail.com- ringrazia Giorgio Marconi e Fondazione Marconi di Milano per aver messo a disposizione i libretti di Studio Marconi” per il progetto Documenti d’Arte del Novecento. Si segnala che a Fondazione Marconi è in corso la mostra Hsiao Chin. L’inizio del viaggio… Opere su carta 1960-65 Il viaggio continua… Opere su carta 2012 - vedi articolo  e che Studio Marconi ’65 sarà presente al Flash Art Event Milano - i giorni 8 – 9 –10 febbraio - la nuova fiera d’arte che si terrà a Palazzo del Ghiaccio, via Piranesi 14, Milano (MAPPA)

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