Così i «vincitori» introducevano nel campo intellettuale nuovi atteggiamenti e nuovi modi di pensare — un nuovo ordine di cui New York era il centro. La Germania e l’Europa intera furono, all’indomani della seconda guerra mondiale, divise, com’è noto, in due blocchi, quello dell’Est e l’altro dell’Ovest, che marcano le due zone antagoniste dove si esercita un potere tanto politico che culturale. Questa scissione mise naturalmente una città come Berlino nell’impossibilità di giocare l’importante ruolo integratore che era stato suo durante il primo terzo di secolo. Questo a dispetto di tutto ciò che fu tentato in un senso come nell’altro. Venne tolta ben presto ogni possibilità di esprimersi alle voci progressiste che, come quella del grande architetto Hans Scharoun (1893-1972) costruttore della Filarmonica e della Biblioteca Nazionale di Berlino, tenevano ancora un discorso orientato verso l’Europa.
Tutto questo allargò ulteriormente il fossato. Le conseguenze tuttavia non apparirono in tutta la loro estensione che negli ultimi anni e saltano agli occhi proprio oggi. Queste conseguenze sono da poco al centro delle discussioni e uno sforzo viene fatto non solo per rimetterle nel contesto europeo, ma anche per risolverle. Questa apertura sembra, per ragioni pratiche, meno difficile sul piano politico — anche se i risultati ottenuti finora non sono completamente convincenti — che sul piano culturale e intellettuale, dove le strutture sono estremamente complesse e fragili.
Questo massiccio apporto straniero fu fatale per la maggior parte dei giovani talenti che si trovarono così disorientati, senza direzione, senza messaggio, senza veduta d’insieme sulla propria pratica artistica. L’arte informale praticata come stile, il tachismo come procedimento, sembravano alla fine degli anni Cinquanta in Europa la condizione necessaria e sufficiente di ogni nuova pittura moderna e le si trovava applicate un po’ ovunque malgrado la differenza delle mentalità. Questo modo di procedere si arricchì poi in relazione agli apporti dell’espressionismo astratto e si rinnovò sotto l’influenza della Pop Art. Rari erano quelli che, in questo flusso di immagini, riuscivano ancora a trovare e a mantenere un punto di vista proprio, a difendere una posizione personale della loro produzione pittorica: occorre ricordare le eccezioni costituite da alcuni artisti fuori del comune come Asger Jorn, Constant, Emilio Vedova o Arnulf Rainer. I l pittore Ernst Wilhelm Nay (1902-1968) e lo scultore Hans Ulmann (1900-1975) costituirono nella Germania dell’Ovest due altre eccezioni esemplari. L’uno e l’altro difesero con rigore e disciplina la loro libertà artistica, riuscirono a mettere in luce la sorgente e le radici del loro essere, a sottometterle alla riflessione e a renderle visibili nelle opere. Poco a poco riusciamo finalmente oggi a vedere e apprezzare le opere di questi artisti, ora che siamo liberi dalla mentalità spiacevole degli anni Cinquanta e soprattutto dal modo formalista con cui, seguendo gli Americani, si considerava la pittura — questo atteggiamento occultò molte opere e ne fece sottovalutare l’importanza, ne svuotò l’essenza che veniva confusa con la presenza materiale, fisica del quadro.
La parola d’ordine era: «What you see is what you see» (Frank Stella). «Una buona opera d’arte è nazionale, ma l’opera d’arte nazionale è brutta», paradosso dovuto a un artista danese. Bisognerebbe ripensarci un giorno, come fecero allora con serietà gli artisti qui rappresentati. Arriviamo così a ciò che è, da molti anni e senza che sia mai detto apertamente, all’origine dei diversi errori di interpretazione da parte dei critici. Il malinteso ha preso, anche in questi ultimi mesi a causa di un trattamento sfumato e differenziato del problema, un giro polemico estremamente violento. Nessuno era al riparo dagli attacchi e certuni non esitarono a diffamare alcuni nostri artisti e a mettere in questione la loro integrità artistica, non senza aver visto da dove soffiava il vento.
Essendo New York verso il 1960 il centro della vita artistica, era facile per gli artisti dichiarare che la miglior arte possibile fosse un’arte internazionale e che, curiosamente, gli artisti più interessanti dell’epoca lavorassero in America. Sebbene gli artisti e i critici di questa generazione non abbiano dimenticato di citare i costruttivisti russi, la loro concezione di un’arte internazionale deve molto al buon vecchio Bauhaus tedesco che essi volevano mettere in questione e sorpassare. Queste posizioni che passarono per «forti» sono oggi seriamente compromesse e non hanno nessuna possibilità di mantenersi, perché altri atteggiamenti e altri modi di pensare hanno fatto la loro apparizione. Se si considerano gli ultimi sviluppi e le ultime tendenze dell’arte tedesca, bisogna ben constatare che lo stile internazionale al quale si tendeva è attualmente incapace di fornire impulsi decisivi, sprovvisto com’è di ogni teoria o vista d’insieme e di tutto ciò che avrebbe permesso un lavoro in comune.
II
È agli inizi degli anni sessanta che in Germania dell’Ovest e soprattutto a Berlino e a Dusseldorf, una nuova generazione di artisti pervenne a una coscienza di sé che non si credeva più possibile e ritrovò attraverso vie nuove una sua certa identità. Si riuscì a resistere energicamente alle influenze e alle mode, perché era il solo modo di permettere a una nuova immagine del mondo di crearsi. L’impresa non contava certo su un successo rapido, fosse anche solo di stima. Lunghi anni di lavoro furono necessari prima che i suoi contorni si precisassero. Bisogna tener conto anche di certi aspetti essenziali di questi primi sforzi. Il problema qui è di schizzare un nuovo quadro dell’evoluzione recente della pittura tedesca, di descriverne, facendo leva su adeguati presupposti, i l cammino che, dopo i primi balbettìi, non ha smesso di misurarsi con un ambiente al quale rimanevano tuttavia estranei.
Il tema del dibattito berlinese ricevette così nuovi prolungamenti. I metodi e i mezzi messi in opera sembrarono ben presto più moderni e più attuali e vi si scorse un modo tipicamente tedesco di trattare lo stile internazionale. Accanto a Joseph Beuys lavoravano tra gli altri Gerhard Richter, Sigmar Polke, Palermo, il più giovane di questa generazione e per questo sempre un po’ più in disparte, pur senza smettere di essere in gioco, quindi Joerg Immendorff.
Per Kirkeby e Anselm Kiefer subirono il richiamo di queste nuove energie che segnarono il loro cammino — questo a dispetto del carattere del tutto diverso del punto di partenza di questi due artisti. Intorno a Beuys, a Dusseldorf, si lavorava più in gruppo; l’Accademia delle Belle Arti vi si prestava per il suo clima e forniva l’occasione di numerose manifestazioni e azioni, Questa base faceva completamente difetto a Berlino, dove si lavorava individualmente, chiusi in se stessi e isolati dal grande credo comune.
I riferimenti facevano difetto ovunque, la continuità era interrotta a tutti i livelli, niente più alimentava la vita dello spirito dopo un lungo periodo senza cultura ed è proprio una cultura che con energia la nuova generazione reclamava. Si cercava e ci si doveva accontentare di ciò che si poteva trovare, si sarebbe scelto più tardi. Come abbiamo detto, la scissione, la rigorosa divisione politica e ideologica non sussisteva solo per la Germania ma per l’Europa intera; il tedesco si ritrovava tuttavia più di ogni altro diviso, il suo paese divenne quello della schizofrenia. Il risveglio lasciava i tedeschi e gli europei con questa domanda: fino a che punto potevano sentirsi legati alla Germania dell’Est? Dovevano considerarsi come «europei dell’Ovest»? Molti artisti tedeschi di questa generazione erano originari della parte Est del paese, ma quando vennero a stabilirsi all’Ovest, non rinnegarono affatto le loro origini: riconobbero sempre un debito nei confronti dei loro primi orizzonti culturali.
Fino a due anni fa la decisione di passare all’Ovest era piuttosto mal accolta o almeno non si era preparati ad accettare il sistema di riferimenti degli artisti dell’Est, soprattutto quando questi ne facevano esplicito richiamo. Ora si è più attenti, da qualche tempo ormai, al vigore dello sviluppo degli artisti che si sono fatti conoscere agli inizi degli anni sessanta, si apprezza soprattutto la libertà che hanno saputo conquistarsi e di cui, dall’inizio, un piccolo gruppo ha colto la portata.
Ma la sua voce non potè farsi ascoltare nel concerto euforico e ingannevole degli anni sessanta — le «silly sixties», come si dice oggi, a posteriori. I Weltbilder di A.R. Penck e i quadri di Markus Lupertz conobbero nello stesso momento la stessa sorte. Non ci si poteva arrestare alle dichiarazioni del secondo: «Il ditirambo che ho scoperto rende visibile il fascino del XX secolo». Non si sapeva che farsene di queste provocazioni intellettuali. Queste hanno mantenuto qualcosa di offensivo e di ingiurioso, il che non diminuisce tuttavia i propositi e non compromette la loro autenticità.
Le libertà che si erano conquistati con la lotta permisero agli artisti innovatori di sorpassare le dichiarazioni di principio e di apportare, passati gli anni sessanta, un contributo decisivo alla pittura dei nostri tempi, senza perdersi in troppo sottili questioni di stile. La battaglia degli stili {Stilkrieg) descritta da una tela di Immendorf (1980) non ha mai avuto luogo. Nel corso degli anni sessanta un movimento si è dunque delineato a Berlino e a Dusseldorf — senza attirare l’attenzione e quasi a porte chiuse —, un movimento i cui progetti, produzioni e metodi hanno acquisito da tempo un carattere d’evidenza e la cui fecondità è abbondantemente illustrata dalle nuove iniziative che negli ultimi anni hanno in Germania fatto uscire la pittura dai sentieri battuti.
A proposito di questi due campi di forza e dei contesti in cui si inscrivono, molto resta ancora da scoprire. Un primo tentativo in tal senso fu fatto dall’esposizione Der gerkruemmte Horizont (L’orizzonte curvato — L’arte a Berlino 1945/1967) che io stesso presentai l’anno scorso all’Accademia delle Belle Arti di Berlino. Queste pagine costituiscono il prolungamento di ciò che difesi allora, senza essere compreso dai critici o dagli storici. Sembrava piuttosto che venissi a turbare un’immagine già fissata e la reazione non mi meravigliò, perché in ciò che si pensa e si scrive oggi ci si ripiega — la maggior parte del tempo — sulle genealogie, le cronologie e le divisioni didattiche ammesse, senza rimettere in questione queste gerarchie e questi quadri sempre riduttivi. (Traduzione: Elio Grazioli)
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MAE Milano Arte Expo -milanoartexpo@gmail.com- ringrazia Giorgio Marconi e Fondazione Marconi di Milano per aver messo a disposizione i libretti di Studio Marconi” per il progetto Documenti d’Arte del Novecento. Si segnala che a Fondazione Marconi è in corso la mostra Hsiao Chin. L’inizio del viaggio… Opere su carta 1960-65 Il viaggio continua… Opere su carta 2012 - vedi articolo e che Studio Marconi ’65 sarà presente al Flash Art Event Milano - i giorni 8 – 9 –10 febbraio - la nuova fiera d’arte che si terrà a Palazzo del Ghiaccio, via Piranesi 14, Milano (MAPPA)
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