La pace in Siria ci chiederà molto più della guerra (di Giorgio Bernardelli, Vinonuovo)

Creato il 09 settembre 2013 da Cremonademocratica @paolozignani

l’articolo di Giorgio Bernardelli è uscito ieri su Vinonuovo, settimanale di approfondimento cattolico. Bernardelli nota che della Siria e dei profughi siriani che pure arrivano regolarmente in Italia da tempo non si è interessato quasi nessuno. La Caritas italiana in 30 mesi ha raccolto solo 150mila euro per i profughi siriani. I leghisti saranno contenti, Maroni diceva che bisognava “diventare cattivi”.
Soliti italiani, si può pensare, che alle questioni estere, ai tanti drammi del pianeta non badano. Sui giornali nazionali trovi anche sette pagine sul caso Berlusconi e quattro di cronache estere. Ci si divideva su Fini ma la Siria forse poneva questioni più gravi. Che cosa ci chiederà la pace in Siria? Costerà più della guerra.

Il digiuno di oggi e le responsabilità di domani
di Giorgio Bernardelli | 07 settembre 2013
La pace in Siria ci chiede molto di più della guerra. Siamo disposti davvero ad accettarlo?

Stiamo vivendo tutti con particolare partecipazione queste ore. L’appello rivolto domenica scorsa da Papa Francesco per una giornata di digiuno e preghiera per la pace in Siria (ma anche negli altri posti dimenticati nel mondo dove si muore a causa della guerra) ha fatto breccia nel cuore di molti. Ci ha dato «qualcosa da fare» in una situazione in cui abbiamo sperimentato troppo a lungo un’impotenza che – alla fine – ha generato indifferenza.

Proprio per questo – però – dobbiamo anche porci una domanda di fondo: per che cosa preghiamo oggi quando invochiamo da Dio il dono della pace? In occasioni come questa corriamo sempre infatti un grosso rischio: quello di pensare alla preghiera come qualcosa di fondamentalmente magico, un momento per invocare dall’alto un intervento di Dio che da solo risolva una situazione ingarbugliata in cui il mondo si è andato a cacciare. Una parentesi che ci permetta di tornare poi domani – con grande tranquillità – a farci gli affari nostri.

Non è questa la preghiera a cui siamo chiamati oggi. E proprio il gesto del digiuno sta lì a ricordarcelo. È una preghiera penitenziale quella che viviamo oggi, un impegno a cambiare prima di tutto qualcosa dentro noi stessi. Cominciando – ad esempio – anche a chiedere perdono per l’indifferenza con cui abbiamo seguito in questi due anni e mezzo il dramma della Siria. È un pugno nello stomaco leggere che Caritas Italiana – in questo arco di tempo – ha raccolto appena 150 mila euro per le centinaia di migliaia di profughi che fuggono da questa guerra. È appena il 10 per cento rispetto a quanto solitamente si raccoglie dopo una catastrofe naturale. Neanche il gesto meno impegnativo di solidarietà, come effettuare una piccola donazione a chi si occupa di assistenza umanitaria, è scattato in questa occasione. Eravamo troppo distratti dalle questioni nostre per accorgerci delle proporzioni di quanto stava succedendo in Siria. Persino la notizia che sui barconi sui quali si muore per arrivare sulle nostre coste ci sono dei siriani l’abbiamo lasciata passare via come se niente fosse.

Deve scuoterci, non metterci il cuore in pace, la preghiera di questa sera. È bello sapere che saremo in tanti e che a noi si uniranno anche persone di altre religioni o che il digiuno questa volta lo vivranno anche tanti non credenti. Ma sarà comunque ben poco se ci fermeremo alla logica dell’evento. Preghiamo chiedendoci che cosa possiamo cambiare da domani perché non piombiamo più in questa indifferenza che uccide. Preghiamo e digiuniamo non contro qualcuno o qualcosa, ma chiedendoci come concretamente possiamo cominciare a costruire nei luoghi in cui viviamo ponti di riconciliazione. La pace costa, la pace ha un prezzo. Qual è quello che noi siamo disposti a pagare?

Abbiamo parlato tanto dell’uso delle armi di distruzione di massa in questi giorni. Sarebbe però bene ricordare che dietro a chi usa questi strumenti di morte c’è sempre anche qualcuno che li progetta e poi li vende. Eppure il disarmo è un tema tremendamente fuori moda nel mondo di oggi. Perché? Faremmo bene a rispolverare una celebre preghiera di Paolo VI: «Signore, noi abbiamo ancora le mani insanguinate dalle ultime guerre mondiali… Signore, noi abbiamo fondato lo sviluppo e la prosperità di molte nostre industrie colossali sulla demoniaca capacità di produrre armi di tutti i calibri, e tutte rivolte a uccidere e a sterminare gli uomini nostri fratelli…». Perché come Chiesa da tanto tempo non siamo più capaci di pronunciare con questa stessa forza questo tipo di parole?

Non possiamo uscire da questa serata accontentandoci di «avere fatto qualcosa». Il 7 settembre ha senso solo se è un inizio di qualcosa di nuovo. Un inizio di una maggiore disponibilità ad ascoltare il dramma dei fratelli che soffrono in Siria, nei suoi diversi volti (i tifosi non sono mai dei veri operatori di pace). Ma anche uno stile che si sforza di includere, anziché preoccuparsi sempre e solo di distinguere. Che torna a credere sul serio nel dialogo possibile tra cristiani e musulmani e nel fatto che tutti gli uomini – anche in Medio Oriente – hanno il diritto di vivere liberi. E per questo non accetta che si possa tacere per quieto vivere o per tutelare i nostri interessi economici.

La pace in Siria ci chiederà molto di più della guerra. Siamo disposti ad accettarlo?

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