di Elisa Nicolaci
Mi fermo a guardare la scena, non posso farne a meno. E forse trapela qualcosa del fastidio che sto provando. L’uomo mi fa pena e non mi viene facile per niente entrare in un ordine di idee come “Eli, dai, potrebbe essere un terrorista Kamikaze.” Quindi mi fermo a guardare da poca distanza per capire cosa succede, solo pochi secondi, mi basta vedere che si fruga le tasche. Mi rimetto in marcia mentre probabilmente quello si starà ancora cercando i documenti. Se fosse un suicida, penso, potrebbe farsi saltare adesso, lui con tutti i soldati, poveri tutti…
Mi viene da pensare come deve essere brutta come esperienza essere fermati mentre si sta camminando per la propria strada, e senza un motivo, solo per “la tua faccia”. Ormai sono sulla scala mobile. Mi sto chiedendo cosa stia provando lui, ma non riesco a mandare troppo in là i pensieri. Sento che una mano mi tira la spalla in modo prepotente. Un tizio mi sta parlando. È un gradino sopra di me sulla scala. Devo togliermi gli auricolari per capire cosa mi stia dicendo: «È un amico suo quello?». Forse ha dovuto ripetere la domanda due volte, appare irritato. Ha un tono minaccioso e ostile. Una faccia cattiva. Veramente brutta! Molto più dubbia di quella del tizio fermato. Una sola cosa mi è subito chiara, vuole mettermi paura. E ci riesce. D’altra parte non ci vuole molto per mettere paura a me! Dev’essere uno di loro in borghese. Per forza. La scena è accaduta molto distante da qui, quindi questo tizio mi ha vista e seguita. Ha un’aria inquisitoria. Mi batte fortissimo il cuore, non di meno sento nascere una irritazione smisurata. Penso, che cavolo vuoi? Mi vengono in mente una valanga di altri pensieri per quella domanda e per il tono di rimprovero e minaccia con cui è posta. Pensieri tipo: solo nella tua mentalità del cazzo ci si interessa alle persone solo se sono tue amiche.
Ma gli dico solo in tono di sfida: «Sicuramente è una persona alla quale mi sono interessata! E allora?».
D’altra parte, che si trattasse “solo” di un controllo lo sapevo da me, tanto è vero che in pochi secondi dopo essermi fermata avevo ripreso la mia strada. Il punto è: quale disturbo avevo dato o avrei potuto dare io fermandomi a guardare da lontano in quella scena? Il punto invece sembrava: noi siamo i buoni, facciamo bene come facciamo, e tu che non sei niente impara a farti i cazzi tuoi!
Non mi va bene. Insomma so benissimo che non mi devo giustificare con lui, ma sento di voler rivendicare il senso più che legittimo della mia sosta davanti alla scena. Che cavolo! Siamo nel 2016 o nel 1939?
Quindi ribatto ancora con forza che senza nulla dire in merito al controllo, era stato per me comunque umanamente brutto assistere a una scena come quella. Ma ovviamente lui non vuole e non può capire. Sento che riprende a parlarmi con lo stesso tono, ma a questo punto io mi rimetto le mie cuffiette e lo lascio disciogliersi nel suo mondo, qualunque esso sia, per tentare di rientrare piano piano nel mio. Operazione non facile. Mi sento in gabbia. Mentre continuo a camminare mi resta addosso per molto tempo la sensazione di essere seguita, spiata. E mi chiedo: Ok, l’altro tizio probabilmente è stato fermato “per la sua faccia”.
Semplice, perché oggi il mio interessamento per una persona vicina, dovuto a istintiva solidarietà umana, mi ha per l’ennesima volta messo in difficoltà. Ma questa volta non in difficoltà di fronte “ai cattivi”. Mi ha messo in difficoltà di fronte “ai buoni”. Nella migliore delle ipotesi in quel momento il mio preoccuparmi per qualcuno è stato interpretato dal signor “siamo qui per proteggerti” come potenziale indizio di chissà quale rischio o “complicità”. D’altra parte lui è lì per proteggermi.
Ma cosa mi sta chiedendo in questo modo chi “mi protegge” (o afferma di farlo) con tanto di braccio armato?? «È amico suo quello?».
In nome della pubblica sicurezza, chi mi protegge mi chiede, mostrandomi tutta la forza che può avere, anche senza armi, il volto semplicemente disumano, di “sospendere” la mia cultura umana. Sospendere gli insegnamenti ricevuti da ragazzina nata in terra di mafia. Quegli insegnamenti per cui la mafia che è nemica dello Stato ti insegna a farti gli affari tuoi se vuoi stare tranquilla. Lo stato democratico invece ti insegna ad avere cura della cosa pubblica e a rispettare e difendere il diritto e la dignità di chi ti è vicino. Un insegnamento così alto che questo stesso Stato si arroga il diritto di esportarlo eventualmente con le bombe, nei paesi vicini che non godono degli stessi diritti e della stessa libertà. Ma può chiedermi questo? O forse oggi ho capito male io? Posso continuare a curarmi degli altri come ho sempre fatto? Ad oggi, in fondo cosa è cambiato? Non mi è stato impedito di far nulla. Semplicemente, come non mi era mai capitato prima, ho solo dovuto “dare delle spiegazioni” per come ero o agivo. Sono stata solo costretta a relazionarmi con un idiota estraneo che rappresenta (forse) “I buoni” e, nel vano sforzo di farlo entrare in una prospettiva a lui aliena, ho ricavato la mia dose di frustrazione quotidiana. Tutto qui ad oggi. Ma domani cosa mi chiederanno in nome della pubblica sicurezza?
Ormai da tempo non mi sento più tanto sicura di sapere come valutare la qualità delle cosiddette libertà di cui si gode nel primo mondo. Oltre tutto, quelle che ci sono mi appaiono così fittizie, sembrano sempre più chiaramente sussistere a scapito delle libertà nel resto del mondo. So da tempo, e l’ho imparato vivendo fuori dalla mia terra, che non è solo la mafia a dirci che se non ci facciamo gli affari nostri finiamo nei guai. La mia esperienza di oggi mi da solo la percezione più vivida sulla pelle che oggi non è come ieri. Qualcosa si aggrava nella direzione: meno libertà e meno per tutti. Meno libertà di essere quello che siamo in nome della sicurezza. E io mi sento sempre meno rassicurata…