La pagina della Cover Writer: “Una vita come le altre” di Alan Bennet

Da Lundici @lundici_it
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Folle, matto, pazzo. In un’epoca come quella in cui viviamo, in cui tutti cercano di farsi notare, di differenziarsi, di rendersi evidenti, questi sostantivi assumono le caratteristiche di complimenti. Le persone sopra le righe, i gesti unici ed originali sono più compresi di un tempo, anzi attraggono.Quando sentiamo o diciamo “Ho fatto una follia per lui/lei” pensiamo ad una cosa bella, sorprendente come andare a vivere dall’altra parte del mondo per amore o imparare a fare una cosa che si detesta, come immersioni, sci o registrare un video in cui si canta una canzone che ci fa schifo ma che certamente il partner apprezzerà, per poi metterlo su Youtube. Nessuno vuole esser considerato normale. Meglio strano, pazzo, matto e se non puoi essere eccezionale, meglio essere deplorevole, folle, disturbante.

Ci sembra più normale prenderci un improperio e uno spintone che un sorriso e un Buongiorno. Pensiamo anche all’ascesa del Movimento 5 Stelle. I suoi attivisti, i neo eletti sono persone comuni, gente come noi. Eppure il successo che hanno avuto, il loro posto in parlamento, non lo devono a se stessi e alla loro normalità, all’avere atteggiamenti e istanze semplici e comuni, condivisibili, ma al mandare avanti Grillo, un uomo sempre sopra le righe, una persona che parla e agisce come un essere disturbato, sempre arrabbiato, che sembra sempre arringare urlando e offende tutti. Uno che forse non andrebbe in giro con un bazooka, ma che ha un “vaffanculo” in canna, pronto ad essere sparato su chiunque in qualsiasi momento. Io personalmente comincio ad essere stanca di tutto questo. Quante volte la mia normalità viene guardata con sospetto, più degli urli e recriminazioni di altre persone? Quante volte ancora verrà scambiato per eccezionale quello che è solo esibizionismo? Avrei proprio voglio di dire basta, vorrei che si finisse di scambiare gente disturbata e patologica, o semplicemente alla ricerca di sensazioni forti, per tipi eccezionali.

The history boys – la versione teatrale italiana

Immagino che questo spostamento verso il fascino della follia non sia cosa di oggi. Nella letteratura, nella musica, nel cinema – su di me, per esempio, libri come “Follia” di Patrick McGrath o pellicole come “Fitzcarraldo” o “A beautiful  mind” hanno lasciato un segno indelebile. Sulla carta, come non desiderare di avere fra i propri cari il malato di Alzheimer Barney Panofsky e scoprire quale fosse realmente la sua versione. La realtà però non è così. Avremmo veramente voluto essere la fidanzata di Syd Barret e stargli vicino fino alla fine dei suoi giorni? Vorremmo veramente aver sposato una donna che si innamora follemente di un matto ospite nel manicomio che dirigiamo, al punto di lasciar morire nostro figlio? Vorremmo che nostro padre/fratello/marito/amante sprofondasse nei suoi inferi interiori per costruire un teatro dell’opera in pieno Rio delle Amazzoni? Avremmo la forza di stare vicino e convivere con le allucinazioni di un genio matematico e schizofrenico come John Nash? Non ne sono così sicura. Resta il fatto che nei casi citati, compreso il mitico Barney, parliamo di personaggi eccezionali. Mentre oggi queste scelte oltraggiose e plateali sembrano la norma e sembrano essere perpetrate da esseri qualsiasi, in cerca di semplice attenzione. Il fatto è che in questi tempi c’è una tale possibilità di divulgazione, un tale fiorire di azioni e personaggi che hanno da dare solo esempi di gesti urlati che l’eccezione, l’originalità, lo straordinario sono l’anonimato, l’essere comune, normale, invisibile.

C’è un autore inglese, romanziere, sceneggiatore sia per il cinema e che per il teatro, eccezionale e grande, pur capace e pluripremiato, che ha fatto dell’analisi del rapporto fra comune e eccezionale, fra folle e normale, fra insolito e quotidiano il filo conduttore di ogni sua narrazione. E lo ha fatto senza mai essere eccessivo pur riuscendo in pieno a trasmetterci quel modo tipicamente inglese di essere sempre al contempo compassati, formali, ma sarcastici e un po’ folli.

É Alan Bennet, nato a Leeds nel 1934. Ci ha regalato libri divertenti ma profondi come “Nudi e crudi”, “Signore e signori”, “La signora nel furgone”. Il mio preferito è “La sovrana lettrice”, che ci racconta come anche la lettura sia per la Regina d’Inghilterra un venir meno al proprio ruolo, un’azione quasi folle. Non c’è spazio per le cose comuni nella vita di chi è al contempo tanto potente e tanto sottoposto a dovere. “Dovendo rispondere alla domanda se la lettura le avesse arricchito la vita, avrebbe risposto di sì, salvo aggiungere con altrettanta certezza che l’aveva anche vuotata di qualsiasi scopo. In passato era stata una donna risoluta che conosceva i suoi doveri e intendeva compierli fin quando possibile. Adesso si sentiva troppo spesso scissa in due. Leggere non era agire, quello era il problema. Anche a ottant’anni, lei era una donna d’azione. Riaccese la luce, prese il taccuino e annotò: “Non si mette la vita nei libri. La si trova”.
“No, ministro. Del resto i libri, come certo saprà, è raro che inducano ad agire. In genere confermano solo quello che, magari inconsapevolmente, si è già deciso di fare. Si ricorre a un libro per avere conferma delle proprie convinzioni. In altri termini, per chiudere un capitolo.”

Sempre sua l’opera teatrale “La pazzia di Re Giorgio”, di cui ha firmato anche lo script cinematografico e il recente “The history boys”, una storia ambientata nell’ultimo anno di un college inglese, i cui protagonisti sono alcuni insegnanti molto sopra le righe e la classe maschile che si prepara agli esami d’accesso alle migliori università britanniche. L’ho visto un anno fa nella versione de Il Teatro dell’Elfo e mi sono veramente divertita.

Ma da dove venga l’ispirazione di Bennet, da dove trovi spunto il suo narrare di personaggi che si dibattono fra l’essere unici e l’essere normali, questo raccontare di attività o oggetti qualsiasi che divengono assolutamente originali se posti in relazione a esseri straordinari o viceversa, come eventi anche normali ma inattesi irrompano nella vita quotidiana della gente più comune trasformandola un qualche cosa di completamente diverso, ci viene immediatamente chiarito nel libro autobiografico “Una vita come le altre”, edito in Italia da Adelphi nel 2010, uscito con il titolo “A life like other people” perla Forlake ltd nel 2009. Questa biografia appena romanzata racconta la storia della famiglia dell’autore, della vita dei nonni, degli zii e dei  genitori, considerati dal figlio così semplici e normali, ma, una volta che si addentra nelle loro vicende, scopre e ci fa scoprire che ogni vita, anche la  più comune, anche quella che pensavamo di conoscere meglio, ha delle caratteristiche di unicità e una qualche aura di follia. Il punto di svolta si raggiunge quando depressione e Alzheimer irrompono  nella quotidianità modificando i comportamenti della madre dell’autore. La “pazzia” vera si manifesta attraverso la perdita delle facoltà intellettive e psichiche e diventa subito chiaro che non c’è nulla di meraviglioso e originale nella perdita di sé, che la gestione quotidiana di persone affette da questo genere di malattie non ha nulla di affascinante.

Insomma, si vorrebbe ancora e di nuovo una vita come altre.

Alan Bennett nel 1973, anno in cui morì il padre.

Da “Una vita come le altre” di Alan Bennet, edizioni Adelphi, 2010.

“Che smacco passare il confine della ragione e scoprirsi tanto banali nella follia quanto nella normalità.”

… All’epoca si parlava di due psichiatri molto in voga Laing e Szatz. Le loro idee non avevano fatto presa su mio padre che però continuava a pensarla a modo suo. Per lui l’equilibrio della psiche era un diritto acquisito: “Prima cosa: far tornare normale tua madre”, diceva. Anche la sofferenza però era normale e questa in particolare era più diffusa di quanto credessi.

La nostra famiglia non era migliore ne peggiore di quelle del vicinato, eppure per molti aspetti, banali ma piuttosto meno importanti, non riuscivano mai ad essere come gli altri.

La vera unica idea che guidava il comportamento dei miei genitori e definiva il loro posto nel mondo, era quella di non essere (o non voler essere considerati) ordinari. “Ordinario”, non è facile da definire. Nell’accezione più semplice significa comune, volgare, ma può implicare un disprezzo più sottile e diversificato, o comunque, nella nostra famiglia lo implicava. Ordinarie erano le cose più disparate: i tatuaggi, le porte dipinte di rosso, i guanti gialli, i cardigan con profilo a contrasto … Il contrario di ordinario non è insolito, anzi sicuramente ostentare qualcosa di insolito, rientra nell’essere ordinari. Quindi lo sfoggio di qualsiasi cosa o lo scialacquio indiscriminato di denaro erano ordinari, così come la mancanza totale di ambizioni o il vivere nel degrado sprecando soldi al gioco o nell’alcool.

L’obbligo di allietare il nostro prossimo è sempre in agguato. Vietato essere noiosi. Siccome agli occhi dello specialista la maggior parte delle malattie smette subito di essere interessante, se proprio dovete star male, sceglietevi almeno una malattia rara.

La pazzia di re Giorgio, 1995

Ne parlai anni dopo nella mia unica piece teatrale sulla follia, in cui la Regina Carlotta è devota a suo marito Giorgio III come papà lo era alla mamma:
“Con tutti i medici è la stessa cosa” dice la Regina.“Nessuno di loro lo conosce. E il Re non è più lui. Come fanno a ridargli il suo vero essere se non sanno qual è il suo vero essere?”

… Ma ho dimenticato che questo incidente così ridicolo rientra nella guerra sotterranea fra sorelle con la mamma sempre dipinta come donnetta vacua, inefficiente, fuori dal mondo e la zia Myra come la donna di casa perfetta. Ma far le pulizie di fino a casa di un’altra donna significa solo in apparenza darle una mano, ma anche offenderla e crearle un problema. La mamma era già fiera della sua casa così come era. …

La mia opinione di lei (la zia) è così radicata che la tomba non basta a modificarla del tutto. Mi sorprendo a pensare che anche la sua morte non sia stata del tutto sincera. Come se ci avesse lasciati per fare scena.

Una vita non ha sempre la stessa importanza sociale. Il valore massimo lo attribuiamo ai bambini. Se fosse scomparso un bambino, i terreni dove questa mattina noi vaghiamo in solitudine sarebbero stati setacciati da valanghe di poliziotti e volontari…se fosse stata una bambina; e per molti versi lo era, solo che aveva tutta la vita alle spalle e non davanti a sé. La vita di zia Kathleen era al minimo del suo valore sociale: 73 anni, era demente, socialmente insignificante, economicamente inutile. Quando è stata ritrovata, l’interesse non si è concentrato sulla fine che ha fatto, ma sulle conseguenze per il personale ospedaliero e l’immagine delle forze di polizia. Anche da morta, come persona era di importanza marginale.

“ Papà papà”. Mamma mi chiama dalla sua camera. Vuole che vada di sopra e come una bambina, si assicura la mia attenzione prima di parlare. Ma non posso risponderle “sì”, altrimenti le confermerei che sono mio padre, che è morto. È un’illusione che va  e viene, e quando scompare la lascia con un senso di antico sconforto. “Abbiamo fatto qualcosa di male? Nessuno di noi due ha fatto niente di male, vero?” Il timore di aver “combinato” qualcosa diventa un’altra versione del vergognoso segreto che l’automobile nel parcheggio voglia spiare, che il televisore vuole capire e che l’uomo nascosto nell’armadio è pronto a punire balzando allo scoperto.
“Se vai avanti così morirò!” esclamo drammatico dopo che mamma stanotte mi ha svegliato tre volte. Penso a mio padre e mi devo dominare per non dire “morirò anche io come lui”, ma intendo proprio questo. Naturalmente l’unico attentato alla mia vita è – come fanno le donne con gli uomini – impedirmi di fare ciò che voglio, di condurre la vita relativamente libera che avevo scoperto di recente a Londra.
Tenerla a casa è ormai fuori discussione.


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