La pancia

Creato il 30 marzo 2013 da Cicciotopo1972 @tincazzi

Dio mi ha fatto troppo poco intelligente
davanti a me la guarigione fuoco nel fuoco nell’infinito

(Scisma, ‘Troppo poco intelligente’, dall’album Armstrong, 1999)

Ve la ricordate Paola Caruso? No, non la biondazza detta Bonas di ‘Avanti un altro’. L’altra Paola Caruso, la giornalista precaria del Corriere della Sera che nel 2010, quando non le venne rinnovato il contratto, decise di fare lo sciopero della fame (qualche giorno, mica come Bobby Sands, tanto per chiarirci…). Confesso che anche io ci cascai, intervistandola, credendola una mini eroina del precariato giornalistico. Dopo alcuni giorni mi resi conto però di aver toppato. Cercava solo di fare i suoi interessi, come tutti, d’altronde. Avuto il rinnovo del contratto sparì dalle Dolores Ibarruro delle barricate dei precari. Uno dei pochissimi  a darle contro, Matteo Bordone, venne riempito di insulti da una folla azzannatrice di sostenitori virtuali della blogosfera. Pure io scrissi qualche post criticando la sua posizione (con grande posteriore pentimento, come già detto sopra). Bordone non aveva del tutto ragione, e scrisse anche delle cazzate, non conoscendo bene le dinamiche interne delle redazioni, ma aveva ragione su un punto. La Caruso avrebbe riavuto il lavoro non perchè era brava ma per un ricatto ( “o mi ridate il contratto o io muoio di fame”). Nessuno si chiese se era brava o meno (ad esempio si venne a sapere che era stata bocciata pià volte all’esame di stato), se valeva il posto che occupava al Corriere (non al giornalino di Cetraro, appunto) ma tutti si identificarono con lei in quanto precaria, sfruttata, sottopagata.

La reazione dei social network fu subitanea. Il post della Caruso (e la sua personale battaglia) venne ripreso diventando un viral che invase in pochissimo tempo migliaia di bacheche e blog. Tutti diventarono Paola Caruso.

Qualche settimana fa si ripete lo stesso meccanismo: Chiara Giannini, giornalista che scrive di cronaca, politica ed esteri per Libero e per Oggi, e che si definisce ‘freelance’ e nello stesso tempo ‘inviata di guerra’(?) senza saper bene cosa vogliano dire i due termini, nel suo blog lancia un post intitolato “Sono una freelance, lascio l’Italia e sono felice“, prontamente ripreso dal Presidente dell’ordine dei Giornalisti, Enzo Iacopino, amico della Giannini, e ripubblicato da centinaia di persone e siti, compreso la ‘Valigia Blu’, sito dove opera Arianna Ciccone, matrona del Festival del Giornalismo di Perugia.

L’accusa è una replica esatta di quanto avvenuto nel 2010: sono brava, non mi fanno lavorare perchè il sistema è marcio, ci sono i raccomandati, faccio un atto estremo. Prima era lo sciopero della fame, adesso l’esilio in altre terre dorate e piene di prospettive.

La pancia. Anche in questo caso nessuno controlla, nessuno verifica, ma tutti si lanciano nell’accusa al torbido e cattivo sistema che non ti fa lavorare. Nessuno controlla o verifica e si chiede se sia veramente così, che è colpa dei giornali che non ti fanno lavorare, anche se sei un “purosangue” di razza del giornalismo di guerra italiano. O se forse è un’altra la verità. Ovvero che non c’è spazio per lavorare e che non sei all’altezza, non vali. Si usa la pancia e non il cervello. E lo fanno anche quelli che giornalisti dovrebbero essere, come il Presidente dell’Ordine e l’organizzatrice del Festival, probabilmente tratta in errore, vista la garanzia di chi aveva pubblicato il post.

Quali meccanismi regola il ‘mi piace’  e la condivisione di un post? Cosa trasforma dal personale al collettivo? L’identificazione in qualcun altro, avviene attraverso la rete molto di più che attraverso un testo scritto o il sistema radiotelevisivo? Perchè?

La rete ci mette a nudo, ci livella, ci eguaglia. Avatar con nome reale o inventato, diventiamo, in una arena di spazio virtuale, tutti uguali e tutti abbiamo lo stesso diritto di parola, non importa di cosa stiamo parlando. Non importa quale sia il nostro background culturale e formativo. La nostra parola vale quanto la parola del ministro, del medico, dello scienziato, del letterato.

Non solo lo spazio di azione e interazione  è completamente orizzontale, ma anche l’idem sentire, il trovarsi, il ritrovarsi in comunità con le stesse caratteristiche del singolo. Uno potrebbe dire, beh prima c’erano i circoli, i gruppi, la piazza. Oggi su internet si riproducono le stesse cose con l’unica differenza della mancanza di uno spazio tridimensionale. La differenza sta però nel fatto che la rete ci trasforma in ciò che non siamo nella realtà. Aggiunge parti di finzione. Una sorta di Second life all’ennesima potenza. Perdere l’identità, trasformarsi, assimilare il dolore degli altri o inventarne, nei casi più estremi, per aumentare l’empatia nella comunità. Una sindrome di Munchausen su internet.

Nel cyberspazio la nostra identità può diventare plurima. Fino a quando è un gioco, non è dannosa, ma quando la o le identità virtuali sovrastano o sostituiscono quella reale allora i problemi arrivano. Così anche l’identificazione di massa con un caso singolo che riassume tutte le nostre frustrazioni nella vita reale, trasforma la comunicazione nella rete (che è un fattore positivo) in un meccanismo perverso e manipolatorio. Non ci interessa sapere più cosa sia vero o falso. Chi dice cosa. La pancia lavora al posto del cervello, gli istinti al posto della ragione.

Esistono decine di libri che parlano dell’identità nel cyberspazio e non mi addentro in materie che non sono mie, limitandomi ad evidenziare come nel processo comunicativo però internet salta ogni tipo di controllo della fonte, limitandosi a replicare una serie di messaggi a livelli molto bassi di trasmissione di sensazioni, identità, empatie. Cosa che avviene soprattutto nei blog e nei social network.

Una sorta di Luther Blisset al contrario, dove se prima con un nome multiplo si nascondeva una collettività consapevole tesa a smascherare il sistema mass-mediatico, adesso si ritrova a propagandare pulsazioni, energie, reazioni nervali, fisicità poco legate al ragionamento e molto strutturate invece sulle sensazioni. Il ‘mi piace’ e la condivisione non fanno ragionare ma sono istintivi, legato a qualcosa di già preconfezionato, preassemblato nella testa. Parole d’ordine. Io/noi è la stessa cosa. Io/Noi non autorizza il pensiero critico. E non ci permette soprattutto di criticare noi stessi.

La pancia regola i social network, come la pancia regola la politica e spesso l’ideologia. Vediamo tutto attraverso specchi deformanti, credendo di essere uno e non centomila tutti uguali, senza particolari capacità, senza particolare intelligenza, senza particolari doti. Persone normali, come tutti, senza particolari inclinazioni al genio.

Postilla:

Senza entrare nel merito del blog (inviterei magari i disattenti colleghi anche a leggersi gli altri post  della Giannini dove ad esempio si scambiano indiani con bangladesi accusandoli di rubare il lavoro agli italiani), la Giannini scrive “Partii per la Tunisia, per seguire il conflitto libico e da lì mi sono specializzata in Difesa e Forze armate“. A parte il fatto che in Libia la Giannini non ci è mai entrata e quindi non ha seguito nessun conflitto, tantomeno altri o aree di crisi come Tunisia (nel dovuto momento), Egitto o Siria, ci si chiede come ci si faccia a specializzare in “difesa e forze armate” e che c’entri poi con il caso libico. Una domanda alla quale forse potrebbe rispondere qualcuno, se è in grado di farlo, perchè io sinceramente non lo so.

Scrive ancora “ho iniziato a girare - quindi dal 2011 partendo da un conflitto dove non è stata - , ad affrontare i teatri operativi e le zone di conflitto assieme ai grandi inviati e ho scoperto di avere stoffa, per questo lavoro. “Un purosangue su cui nessuno aveva mai scommesso”: mi ha detto più volte un grande amico e grande reporter di guerra. Il primo che mi abbia dato fiducia. Spesso in prima pagina, sempre in prima linea. Per appena 50 euro ad articolo“.

Insomma, dove sia stata la Giannini in ‘prima linea’, a parte essere stata embeddata con le forze armate italiane (che in prima linea, come fanno gli americani, non ti mandano neanche morto), nessuno lo sa e neanche quali guerre ha coperto. E autoappuntarsi medaglie di reporter d’eroismo alla Tin Tin non solo fa ridere, ma è anche offensivo per tutti quelli che in prima linea ci lavorano veramente. E qualcuno ci ha anche lasciato le penne. Non ce l’ho con gli embeddati,sia chiaro, ma sono due cose differenti e chi lofa di lavoro lo sa.

Senza contare che i freelance e tutti quelli che lavorano come reporter di guerra, siano giornalisti, cameraman o fotografi, non ‘inviati’, visto che rischiano la vita e che hanno forti spese, non lavorano di certo per 50 euro a pezzo.

Ma la pancia detta legge. Sconcerta che i comunicatori di cui sopra, preferiscano forme rispetto ai contenuti, bandiere rispetto a valori.

ps. Fermo restando che sono pronto a rettificare e a fare le mie pubbliche scuse sulla questione libica qualora la collega fornisse le prove dell’essere stata lì durante il conflitto.


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