di Cristiano Abbadessa
Forse dipende dal fatto che Gesù parlava agli uomini del suo tempo (la folla, infatti, rispose: «L’ultimo»). Oppure, come direbbe qualcuno, dipende dal fatto che era un inguaribile ottimista intriso di visioni utopistiche. Certo è che ho il forte sospetto che, chiamata a rispondere sinceramente, una folla odierna non potrebbe che individuare nel primo figlio il modello da seguire. Tanto più che la parabola, con un pizzico di malizia, non ci dice se il padre abbia poi saputo chi è andato a lavorare nella vigna, ma sottintende piuttosto che se ne sia disinteressato, lasciando i figli alle prese coi propri doveri e con la propria coscienza.
Oggi molti apprezzerebbero la pronta e disinvolta rassicurazione fornita dal primo figlio, di certo condita da un sorriso aperto e da un apparente attivismo; così come troverebbero degna di biasimo la svogliata ritrosia del secondo, certo accompagnata da un moto di fastidio e manifestata con una risposta mugugnata a mezza bocca. Se poi, per un malaugurato caso, la verità venisse a galla, è facile immaginare il primo figlio pronto, con la massima sfrontatezza, a giustificare l’assenza con sopravvenuti impegni, di certo più incombenti e più importanti nell’ottica della gestione familiare; mentre il secondo rivendicherebbe l’opera svolta con la tigna di chi rinfaccia, con l’ovvio contorno di lamentazioni e facendo pesare il senso del dovere. Molti, insomma, direbbero oggi che il primo figlio ha saputo fornire una buona immagine di sé, mentre il secondo, al di là dei meriti, resta uno che non si sa vendere.
La parabola mi è tornata alla mente perché, ultimamente, mi sono imbattuto in un numero un po’ eccessivo di “primi figli”.
Per esempio, qualche giorno fa avevamo un paio di autrici che, dalle 13 alle 15, avrebbero risposto su facebook alle domande dei lettori, nell’ambito del BookAvenue BookFestival. In mattinata, prima che partisse l’iniziativa, sulle pagine fb era un fiorire di amici che garantivano la loro presenza, che lodavano l’idea, che promettevano la partecipazione. Al dunque, il silenzio totale e un’assenza di partecipanti che si è tradotta in un’improvvisata, e paradossale, reciproca intervista fra le due autrici in linea.
La cosa mi ha lasciato sbigottito, anche se (o forse: proprio perché) sembra rispecchiare un diffuso spirito dei tempi. Tempi in cui, per dire, se si lancia l’idea di una serata in compagnia si viene subissati immediatamente di adesioni entusiastiche, pronunciate però da persone che poi, all’approssimarsi della data, si sfilano via via invocando impegni improvvisi e imprevisti; e, magari, lasciando con un palmo di naso chi aveva atteso qualche giorno a aderire per essere certo della propria presenza e, faticosamente liberatosi, si ritrova con l’appuntamento saltato.
Qualcosa di simile, temo, sta avvenendo anche intorno alla nostra campagna abbonamenti. Che ha subito smosso qualche commento entusiasta e diverse promesse di pubblicizzazione dell’iniziativa, senza invece suscitare voci critiche che potevano anche essere messe nel conto. Incuriosisce però che molti degli entusiasti della prima ora si siano ben guardati dal sottoscrivere l’abbonamento-sostegno seguendo le modalità previste.
Ora, è chiaro che la disponibilità a promuovere e veicolare la nostra campagna è bene accetta e degna di mille ringraziamenti. Non vorrei però che tutti finissero per farsi promotori di una iniziativa alla quale si guardano bene dall’aderire. Abbiamo scartato l’idea di fare un sondaggio sulla proposta e di avviare da subito, invece, le prenotazioni per l’abbonamento effettivo proprio per evitare di ritrovarci vittime di equivoci spiacevoli.
Chi condivide la proposta, per favore, come primo atto aderisca e prenoti il proprio abbonamento. Poi, se gli è possibile e se lo vuole, sarà tanto più benemerito quanto più riuscirà a coinvolgere altri amici, conoscenti e lettori in genere; ma questo, appunto, è il passo successivo. Perché non vorrei che ci ritrovassimo, alla scadenza fissata, circondati da sorrisi rassicuranti ma con tutti i grappoli a marcire nella vigna in cui nessuno ha lavorato.