Prima edizione dell'Emilio di J.J. Rousseau
1. Qualche appunto sul passato
Noi nasciamo deboli e abbiamo bisogno di forze, nasciamo sprovvisti di tutto e abbiamo bisogno di assistenza, nasciamo stupidi e abbiamo bisogno di giudizio. Tutto ciò che non abbiamo alla nascita e di cui abbiamo bisogno da grandi, ci è dato dall’educazione.
Questa educazione ci viene dalla natura, o dagli uomini, o dalle cose. Lo sviluppo interno delle nostre facoltà e dei nostri organi è l’educazione della natura; l’uso che ci si insegna a farne è l’educazione degli uomini; l’acquisto di una nostra propria esperienza sugli oggetti che ci colpiscono è l’educazione delle cose.[1]
1762. Forse conviene iniziare da qui. Non siamo poi così distanti dalla pubblicazione per la prima volta del Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, sempre di Rousseau, in cui grande spazio è dedicato al tema dell’educazione e del sapere come mezzo per emancipare se stessi, diremmo oggi. Per quanto non si possa parlare appieno di una teoria pedagogica consapevolmente strutturata nel pensiero di Rousseau, possiamo iniziare a ripercorrere tracce sparse di queste riflessioni, fino a ritrovarle due secoli dopo nelle parole e negli scritti di un altro pensatore francese: il Michel Foucault di Sorvegliare e Punire[2]. L’idea del sapere come espressione di potere nella gestione delle verità e delle conoscenze ci riconduce ad un sistema complesso che pervade la fisicità e la politica intesa con l’accezione di controllo del corpo che ancora oggi è al centro della discussione sulle istituzioni[3]. L’anno preciso è il 1975 e non ci dovrebbe stupire il fatto che sia lo stesso periodo in cui nelle aule dei tribunali (istituzione) venivano dibattuti casi emblematici di un sistema educativo escludente e classista come quello dell’Istituto Medico Psico-pedagogico Villa Giardini[4], nel nostro modenese (guarda caso un’altra istituzione). Istituzioni che Basaglia[5], non solo in riferimento al manicomio, chiamava totali, e che ben si raccordavano all’istituzione carceraria. Villa Giardini, caso che occupa uno spazio centrale di una nostra ricerca in corso, un istituto per minori, privato e convenzionato con l’ente pubblico, in cui non vi sono persone, ma matti, vagabondi, figli di emigranti e derelitti[6]. Queste sono più o meno le categorie che appartengono ad un modello di pensiero che si fa sistema e in particolare si qualifica come educativo, fortemente influenzato dal proprio passato e costretto[7] a costruire le proprie pratiche e metodologie sul suo bagaglio culturale di riferimento. Ma non corriamo, non seguiamo la tentazione della generalizzazione, della provocazione, ma afferriamo il consiglio/critica di Elisa, pedagogista e amica. Proviamo a dipanare una matassa densa e coinvolgente, cerchiamo di fissare alcuni punti, forse a volte nemmeno i più importanti della storia della pedagogia, per comprendere il paradigma educativo del presente e scorgerne le prospettive.
Il progetto più completo e organico di riforma dell’educazione nella Francia rivoluzionaria fu presentato all’Assemblea legislativa nel 1792 da J.A. Caritat marchese di Condorcet[8](1743-1794).
L’impostazione da cui trae spunto la sua proposta è decisamente sollecitata dai lumi del suo tempo: l’istruzione è il mezzo più diretto per sollevarsi dalla miseria, dunque uno Stato deve fornire a tutti, gli strumenti per poter provvedere ai propri bisogni ed essere in grado anche di contribuire al benessere comune. La stella polare, come risulta evidente, è dunque l’uguaglianza. Il sillogismo è semplice: più persone istruite uguale a meno persone povere. Meno persone povere, uguale a una società più giusta.
La proposta di Condorcet era decisamente articolata (cinque gradi di istruzione, formazione degli insegnanti di ogni grado all’interno del grado successivo di istruzione…), ma ciò che in questa sede ci interessa è il tentativo di costruire una scuola in cui lo Stato non avesse autorità. Una scuola in cui il potere pubblico non potesse impedire la genesi di nuova conoscenza. Fin qui ogni cosa ci risulta familiare, anche se già iniziamo a percepire, per quanto possa essere sottile e silenzioso un paradosso che solamente più avanti si espliciterà. Ci basti sapere per ora che, anche nella teoria più profondamente connessa al secolo dei Lumi, la scuola si doveva occupare dell’oggettività dei fatti, senza occuparsi di trasmettere opinioni politiche o religiose. Ecco l’istruzione come mezzo di trasmissione di un sapere oggettivo, fattuale e dunque vero. Al resto dovevano pensare la famiglia e la Chiesa. Basta. Sul concetto di verità potremmo a questo punto perderci inseguendo le innumerevoli discussioni aperte dalla storiografia, ma è di rilievo comprendere dove ci conduce la strada che abbiamo appena cominciato a battere e che abbraccia solamente due secoli di storia.
Negli anni in cui il Rousseau dell’Emilio scriveva, le società dell’occidente stavano lentamente immergendosi in quella fase storica che solitamente, nei manuali per le scuole superiori, viene rigidamente periodizzata così: la prima rivoluzione industriale[9]. Mentre i manualisti si dimenano tra un mezzo secolo di esistenza – tra gli anni ottanta del Settecento e i primi trenta dell’Ottocento – e che ci piaccia identificarla con i telai inglesi o con una bella macchina a vapore di Watt, la rivoluzione industriale è contraddistinta da processi di alta fermentazione anche nel mondo dell’educazione; ciò porta a compimento alcuni paradossi tipici del mondo che cambia. La convincente teoria secondo la quale l’educazione emancipa le coscienze e contribuisce ad elevare l’essere umano dalla povertà materiale e spirituale, collide in modo evidente e fragoroso con la differenza sociale prodotta dal diffondersi della grande industria e della manodopera a basso costo. Come armonizzare l’evidente importanza dei saperi teorizzata dagli illuministi con l’imposizione delle 14-16 ore di lavoro giornaliere? E come rispondere alla necessità crescente di manodopera specializzata?
Se all’apparenza possono apparire domande retoriche o banali, poste a paragone con il nostro presente o con il nostro futuro si dimostrano assai attuali e centrali nei meccanismi dell’istituzione scolastica. Le teorie educative proprie di quella contemporaneità trovano dunque spazio e si mescolano nelle numerose teorie filosofiche di tutti i pensatori. Questi pensieri sparsi sulle pratiche educative e la loro importanza, trovano del resto spazio anche all’interno del mondo socialista e ai suoi richiami «all’educazione collettiva» come condizione primaria «per il riscatto umano dalle miserie della terra»[10], così come nelle teorie più idealiste dei romantici, secondo le quali l’educazione è una questione privata e appartiene all’autonomia del proprio Io interiore.
Su queste basi, ancora fortemente improntate dalle teorie del secolo dei Lumi, inizia a prendere forma con lentezza, ma in modo inesorabile, la scuola che oggi conosciamo, imboccando strade a volte chiuse, a volte dissestate, a volte in salita, ma che in un modo o nell’altro hanno contribuito a delineare i contorni di quella odierna [11].
Se dunque abbiamo attraversato in questa nostra corsa la Francia e l’Inghilterra, ora ci ritroviamo nella Germania della Bildung (educazione), intesa qui non come un insieme di conoscenze, ma come la capacità dell’essere umano di realizzarsi.
In contro luce abbiamo quindi fotografato le grandi teorie che ci hanno accompagnato fino ad oggi e ci ritroviamo a confrontarle con alcune discussioni molto attuali e che riempiono numerosi spazi che abitiamo: pluralità d’intelligenze, otri da riempire, organizzazione degli spazi e della didattica, attenzione al soggetto, centralità dell’oggetto.
Scintille dalla fucina.
E un incendio all’orizzonte.
La ragione.
Tale incendio come spesso accade parlando di straordinari fenomeni culturali conta più punti di innesco, si diffonde in modo irregolare e dà spazio a interpretazioni dell’evolversi della società molto diverse a seconda di chi le formula. Senza voler essere eccessivamente sintetici possiamo però brevemente accennare che «l’approccio scientifico ai problemi dell’educazione coincide, verso la metà dell’Ottocento, con lo sviluppo della società di massa»[12]. Questa tendenza culturale ha un significato ben preciso e conduce alla nascita di numerose teorie educative: da quelle del positivismo evoluzionistico[13] a quelle più vicine al marxismo, fino a quella d’impronta sociologica di Durkheim che già nel 1922 intendeva studiare in modo storico – scientifico l’educazione, intendendola come un fenomeno sociale e pertanto da adattare alla società[14].
«In Italia la cultura del Positivismo si afferma come tentativo di consentire alla cultura di affrontare in modo realistico, nel periodo post-risorgimentale, i gravi problemi sociali della nazione, dal cui assetto istituzionale e giuridico non possono essere separati. Il nuovo Stato ricevette un’organizzazione fortemente accentrata e caratterizzata da una forte “piemontesizzazione”: l’intera vita politica era regolata nei ministeri della capitale, mentre vennero estesi a tutto il territorio i sistemi normativi del Regno sabaudo»[15]. Così accade anche per il sistema educativo.
A questo punto potremmo continuare a lungo con l’analisi storica del percorso che ci ha trascinati agli attuali sistemi educativi e istituzionali che governano la crescita dei bambini e degli adolescenti nel mondo occidentale. Potremmo adottare un punto di vista nazionale o europeo e seguire l’iter politico amministrativo che ha dato origine nel dettaglio ai differenti gradi di istruzione, così come potremmo procedere come abbiamo fatto fino ad ora compiendo lunghi balzi e osservando come le diverse teorie delle idee hanno generato di conseguenza altrettanti modelli educativi. Si potrebbe altrimenti continuare fornendo un elenco analitico degli autori “chiave”, classificando coloro i quali si sono posti contro il positivismo delle ragione tra fine Ottocento e inizio Novecento. Potremmo aprire un varco ampio e forse necessario per far spazio alla riforma Gentile[16]. Ma forse a questo punto, come dicevamo, conviene fare una pausa. Riflettete per un momento sugli spunti forniti. Godetevi un buon bicchiere d’acqua. Una boccata di ossigeno.
Una sosta lungo la strada.
Bene.
Riprendiamo.
Da un altro punto.
Non così distante. Anzi.
Immedesimiamoci per un momento e leggiamo un paio di brevi aneddoti.
2. Impressioni sul presente
Scuola Media. Ora secondaria di primo grado. Classe definita «speciale».
È il 2011. Una giornata di ottobre, di quelle ancora belle calde che ti chiedi dove sono finite le mezze stagioni e ti rendi conto che lo stai pensando dall’interno di una stanza con 28 banchi disposti al centro per accogliere una riunione di professori di scuola media, la dirigente scolastica, e i servizi sociali del distretto. Oltre alle mezze stagioni, ti chiedi anche cosa ci stai facendo tu, lì dentro. Hai studiato storia, in questo caso non hai assolutamente l’abilitazione per insegnare nulla, sei un educatore, rigorosamente non professionale, sottopagato da una Cooperativa sociale a cui è stato chiesto di fornire due figure di “educatori” per un progetto funzionale alla riduzione della dispersione scolastica. Sì, ti senti anche un po’ fuori luogo. Nonostante tutto, però, non ti rassegni, prendi posto a uno dei banchi e noti la parola “cazzo di merda” intagliata con saggia e abile maestria sul legno. L’incontro serve a pianificare l’anno scolastico di questa particolarissima classe dal simpatico nome di “Futuro oltre il banco”. Non è la solita classe di scuola media. È un “innovativo” (innovativo?) progetto in cui 15 tra ragazzi e ragazze pluri-bocciati di tutto il distretto scolastico sono stati accorpati in una unica classe che dovrà accompagnarli all’esame di terza media contando sul buon funzionamento di una équipe multidisciplinare. E non puoi fare a meno di pensare all’uso improprio dei termini.
Funziona così: tu acciuffi 15 adolescenti, metà stranieri, metà del sud Italia più un paio di autoctoni e li costringi a vivere dentro una stanza, seduti al loro posto per qualche ora. Nella stessa stanza, mediante un’ampia fessura che chiamano porta infili a turno i professori di ruolo della scuola media, ovviamente inconsapevoli del progetto. Ricordati della psicologa un’ora alla settimana e delle due immancabili guardie del corpo travestite da educatori e guardi cosa succede. In teoria, pensi ne verrà fuori un capolavoro di promozioni a raffica. Ed eccoti il progetto innovativo. Se cerchi di non pensare al fatto che tutto ciò sia sbagliato e bisognerebbe far tabula rasa e costruire ben altro, puoi provare a far notare almeno che un consiglio di classe al mese, di un’ora e trenta, in cui pianificare le attività e discutere dei ragazzi è un po’ poco, ma nessuno ti ascolta. Puoi provare a dire che bisognerebbe combinare delle strategie individuali e di gruppo, immaginare e organizzare delle attività educative non formali e modalità laboratoriali attraverso cui le discipline scorrono e si dispiegano. Ma ti verrà risposto che «non sono mica degli artisti!». Che «non hanno interessi»! Se provi a insistere scopri che il colpo mortale non l’hanno ancora sparato, fino a quel momento si stavano scaldando. «Noi siamo professori, siamo qui per dirgli le cose che devono sapere e ci devono portare rispetto. I loro problemi vanno visti dagli assistenti sociali o dagli psicologi. Se sono gravi dagli psichiatri». «La scuola li deve educare, per il resto ci sono altre professionalità».
Scuola elementare. Ora scuola primaria. Laboratorio di storia.
I bambini e le bambine vengono condotti dentro una aula dell’archivio comunale di turno che accoglie. I tavoli sono pronti per far lavorare gruppetti più piccoli rispetto all’intero gruppo classe. Già pronti in bella mostra alcuni documenti di archivio per ognuno di loro. Titolo del laboratorio: Vivere in guerra. La vita quotidiana durante la seconda guerra mondiale (1943-1945). Le finalità: «educare ad una cittadinanza consapevole attraverso la valorizzazione dei luoghi legati alla storia della Seconda Guerra Mondiale e la conoscenza della storia locale; stimolare le capacità di osservazione e di analisi verso il patrimonio storico della propria città e le forme di memoria presenti nel tessuto urbano». Gli obiettivi: «conoscere le emergenze culturali e architettoniche della propria città; comprendere e interpretare documenti; costruire collegamenti fra la storia locale e quella generale; conoscere aspetti specifici di un evento storico». Tempo: 3 ore. Encomiabile. Poi a casa. Lavoro preparatorio svolto in classe. Nessuno. Lavoro da svolgere in seguito. Nessuno. I documenti sono già stati scelti e forse nessuno si è curato di spiegare cosa è un documento. Per interpretare i documenti vengono poste domande precise. Le risposte, chi fa le domande, le sa già. Il suo obbiettivo è carpirle dalla voce dei bambini. I contenuti che si vogliono far passare (come se si trattasse di osmosi) sono ben chiari a chi conduce. Non ha importanza il pensiero dei bambini, ciò che davvero conta è creare abbastanza spazio nel loro cervello per farci stare il materiale che dobbiamo archiviare. Un bel garage vuoto. Ogni tanto nel caos che regna sovrano riuscite anche a tornare presenti a voi stessi, mentre anche in questo caso vi chiedete come siete finiti in quella situazione, ma poi l’esperta dell’archivio vi ricaccia nel vostro angolino in cui cercavate riparo. Stava urlando «Io sono una prof. mi dovete ascoltare».
Ecco.
Finita la pausa.
Forse si stava meglio prima.
Riprendiamo dunque da dove ci eravamo interrotti. Se state leggendo questo articolo sul web e vivete in un luogo abbastanza contemporaneo con un collegamento decente (dunque ci leggete fuori dai confini nazionali) allora vi invitiamo a guardare il video qui sotto e contemporaneamente dimostrare che siete multitasking e aprite, naturalmente in un pannello nuovo, questo link. Fa parte di ciò che vogliamo scrivere in queste 30000 battute a nostra disposizione.
Si aprono in questo modo anche nel nostro cervello due finestre parallele che vorremo seguire in quest’ultima parte di articolo. Da una parte il ragionamento, a nostro avviso centrale, relativo al cambio di paradigma che è necessario affrontare per poter giungere preparati alle sfide del sistema scolastico del XXII secolo, dall’altra l’evidente disinteresse che la storia, in particolare come disciplina accademica, ma non solo, ha dimostrato nei confronti dello sviluppo di discussioni e confronti per aprirsi al come insegnare la materia. Alla didattica. Quel capitolo 5 che Bloch nel suo libro più famoso non fece in tempo a scrivere. Sono passati quasi settanta anni e nonostante tutto siamo ancora fermi, incastrati tra quelle pagine bianche [17].
3. Un paradigma in crisi
E allora quale modello educativo dovremmo, anzi vorremmo, prendere come riferimento? Quale strada si prospetta davanti ai nostri piedi? «Franca Pinto Minerva sostiene l’urgenza da parte della pedagogia di rivedere la propria articolazione concettuale e di considerare l’apertura interdisciplinare come elemento fondamentale per la riformulazione del concetto di formazione. Dello stesso avviso sembra Giorgio Chiosso il quale afferma che l’uomo contemporaneo deve imparare a familiarizzarsi con le dissolvenze e con il pluralismo metodologico, a costruire logiche inter- e poli-disciplinari per definire nuovi schemi cognitivi, oltrepassare i confini disciplinari tradizionali e procedere a forme di ibridazione fra competenze scientifiche diverse. Sembra ci sia accordo, dunque, nell’auspicare il superamento del modo riduttivo in cui il concetto di educazione viene inteso dai paradigmi interni alle singole discipline e nell’affermare la necessità di un approccio interdisciplinare che metta la pedagogia in relazione con i saperi che le altre scienze umane e sociali elaborano. Si tratta, sostiene Concetta Sirna, «di saperi necessari per leggere e decifrare meglio l’evento educativo nella sua complessità». Franco Frabboni, a sua volta, parla di un rinnovamento della pedagogia che dovrebbe «cambiare pelle scientifica e slargare il proprio compasso ermeneutico, rifondando la propria teoria della conoscenza». In effetti, l’apertura interdisciplinare sembra costituire una strategia conoscitiva efficace per far fronte ai molteplici problemi concettuali ed operativi che la condizione postmoderna pone alla pedagogia. Mi trovo d’accordo con gli studiosi sopra ricordati sul fatto che una simile scelta, se assunta fino in fondo, implicherebbe profonde innovazioni all’interno di quadri accademici consolidati» [18].
Jerome Bruner, psicologo americano considera il pensiero narrativo il primo dispositivo per conoscere e interpretare la realtà e sostiene che «Il pensiero umano è essenzialmente di due tipi. il pensiero logico-scientifico e il pensiero narrativo. Questi due modi di pensare, pur essendo complementari, sono irriducibili l’uno all’altro. Il pensiero narrativo si occupa del particolare, delle intenzioni e delle azioni dell’uomo, delle vicissitudini e dei risultati. Il suo intento è quello di situare l’esperienza nel tempo e nello spazio. Il pensiero logico-scientifico è un sistema descrittivo e matematico ricorre alla categorizzazione e alla concettualizzazione, è teso a trascendere il particolare e a conseguire un elevato grado di astrazione» [19].
Provando a riassumere per punti i due tipi di pensiero individuati dallo psicologo potremmo dire che il pensiero logico scientifico (o paradigmatico):
descrive;
cerca Verità scientifiche;
utilizza come strumenti: logica, matematica;
si basa sulla creatività: teorie, analisi, argomentazioni scientifiche;
dall’altra invece, il pensiero narrativo:
interpreta;
parla di verità per il soggetto, non di verità assolute;
utilizza come strumenti: la lingua, le regole sintattiche e morfologiche, arte;
si basa sulla creatività: sostanziale, libertà assoluta della mente.
Ora potremmo chiederci: i due modelli possono coesistere, oppure uno esclude l’altro? Per rispondere vi portiamo l’esempio di Charles Darwin, il padre dell’evoluzionismo.
Nel 1831 tra l’insoddisfazione e il disinteresse verso gli studi di teologia e ancor prima di iscriversi a medicina, ma felice della sua collezione di coleotteri e armato della sua passione per la botanica partì per un viaggio di 5 anni intorno al mondo. Durante questi anni raccolse le sue intuizioni su alcuni taccuini[20] e lo fece in due modi: attraverso la scrittura diaristica e attraverso il disegno. Questo esempio mostra come il pensiero narrativo sia molte volte il supporto fondamentale per la generazione di teorie di stampo scientifico e di come quindi i due possano, non solo coesistere, ma essere l’uno complementare all’altro.
Uno splendido esempio è lo schizzo del corallo della vita un modello capace di spiegare meglio di quello ad albero, l’evoluzione. La scienza dunque, spesso è frutto di intuizione e pensiero narrativo.
Il "corallo della vita"
E quindi? Vi starete chiedendo.
Quindi crediamo che nell’ambito accademico l’attuale modello sia profondamente in crisi, quello della nostra disciplina prima di tutto. È necessario trovare lo spazio per discutere e progettare strategie che tengano conto anche di tali teorie per aprirci al nostro presente. Presente che troppo spesso tendiamo a considerare più complesso del passato, ma che a nostro avviso semplicemente richiede forme di pensiero che utilizzino categorie attuali, pur nella consapevolezza del processo storico che le ha prodotte. Crediamo dunque si ponga una questione ormai ineludibile nel dibattito storiografico. Come affrontare l’insegnamento? Come pensare la diffusione di ciò che viene prodotto? Come pensare ad un modello educativo differente? Come usare gli strumenti di cui disponiamo non per servirci dell’altro, ma perché l’altro si serva di ciò che lo circonda? In questo senso il video di Ken Robinson è interessante: invita a ripensare il nostro sistema educativo alla luce di teorie neanche poi così moderne, sintetizza le precedenti teorie per fornire una via d’uscita da un modello considerato in crisi.
1973. Gianni Rodari in quello che lui definisce «libretto» ossia Grammatica della fantasia [21] fornisce una serie di strumenti pratici e di tecniche concrete volte a creare nel processo educativo ampi spazi per l’immaginazione. Invenzione, gioco e creatività vengono così rivendicati come strumenti costitutivi di un approccio alla realtà e di un processo educativo. L’immaginazione diviene così l’insieme di stimoli ed impulsi che permette la crescita della persona in società. La creatività «va coltivata in tutte le direzioni» [22]. Sarebbe interessante comprendere, nel rapporto Emilia-Mondo (si, permetteteci un po’ di campanilismo), quale sia stato storicamente il ruolo del pensiero e delle tecniche di Gianni Rodari. Sicuramente possiamo assistere ancora oggi alle diverse brecce aperte da queste sue riflessioni. Uno spazio confinato e ben delineato all’interno di un sistema che ancora oggi si muove in unica direzione. Integrazione facoltativa in un sistema e non sistema a sé. Importante allora porsi alcune domande per il futuro. Se quello spazio allora rivendicato fosse, al contrario, l’assioma su cui costruire l’intero sistema educativo dall’infanzia all’università? Se immaginazione, gioco, creatività fossero i mattoni di un paradigma fondato sulla interdisciplinarietà?
«Quanto alla parola “mattone” ricordiamo il test americano di creatività, di cui parla Marta Fattori nel suo bel libro Creatività ed educazione. I bambini vengono invitati, con quel test, ad elencare tutti gli usi possibili del “mattone” che conoscono o che riescono ad immaginare […] Purtroppo test del genere non hanno lo scopo di stimolare la creatività infantile, ma solo quella di misurarla per selezionare “i più bravi in immaginazione” come con altri test si selezionano i più bravi in matematica. Avranno la loro utilità, naturalmente. Ma in sostanza perseguono scopi che passano sopra la testa dei bambini. Il gioco del “sasso nello stagno” che qui ho brevemente illustrato, invece, si muove nel senso opposto: deve servire ai bambini, non servirsi di loro» [23].
Le rivendicazioni, oltre il lungo Novecento, e ancor oggi aumentano.
Sir Ken Robinson non cita il mattone, ma la graffetta. Fa differenza?
4. Un po’ di fantasia
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Mulini a vento di Salvador Dalì (1904-1989)
Prendiamo a questo punto in prestito da Bruno Munari, artista e designer, il termine di pensiero laterale[24]: verso la fine degli anni sessanta, dopo l’esperienza dei libri illeggibili (si avete letto bene, cercate su google) individua significati differenti per i termini fantasia, invenzione e creatività. Con il termine fantasia si indica la possibilità di concepire, di pensare ciò che prima non c’era, e quando la fantasia comincia a funzionare ecco l’invenzione, che fa diventare immagine ideale e progetto il lavoro della fantasia. Il “materiale” di cui l’invenzione si serve è ciò che già si conosce, ciò che già c’è, ma l’invenzione consiste proprio nel ricombinare idealmente questo materiale, empirico o astratto che sia, in modo nuovo e originale. Ma questo non è ancora un atto creativo, perché la creatività, è per Munari, la capacità-possibilità di realizzare e mettere in pratica (che significa anche far entrare in relazione con gli altri) ciò che la fantasia ha concepito e l’invenzione ha trasformato in progetto.
«A livello educativo questo significa che l’invenzione e la creatività non hanno bisogno solo di doti intellettuali, non sono solo idee e pensiero: nascono e vivono anche grazie ai luoghi e ai materiali attraverso cui è loro data la possibilità di prendere corpo. […] È ben chiaro, d’altra parte, che anche la fantasia, se non è alimentata, incoraggiata, allenata dall’abitudine e dalla pratica inventiva e creativa, si affievolisce e scompare dall’orizzonte del pensare e del fare»[25].
A queste teorie si aggiunge, sempre nel dopoguerra il concetto di pensiero divergente [26] una nuova facoltà mentale, un tipo di intelligenza differente dalla più convenzionale abilità di risolvere problemi standardizzati in modo altrettanto standardizzato, si inaugura così la tendenza americana a ricercare e classificare diverse forme di intelligenza. Una concezione questa che trova oggi il suo più marcato sostenitore in Howard Gardner e nella teoria di intelligenze multiple [27].
Ma forse è ora che ci avviamo verso la conclusione di questo breve viaggio che abbiamo deciso di affrontare in queste pagine con voi. Quello che ci piacerebbe riuscire a fare in modo più deciso, nella nostra disciplina di provenienza, la storia, ma in generale nella relazione tra le discipline umanistiche, è riuscire a localizzare uno spazio di discussione e approfondimento in cui porre a confronto le questioni appena accennate. Vogliamo provare, anche noi, il piacere dell’atto creativo. Tante volte, guardandoci alle spalle abbiamo rischiato di essere (o lo siamo stati) l’insegnante vestale che detiene il monopolio dei saperi.
Quale che sia la materia che manipoliamo, dobbiamo essere artigiani consci delle opportunità che la contemporaneità ci offre di incoraggiare il pensiero divergente in noi e in chi ci sta di fronte. Esercizio in noi e fuori da noi. Troppo spesso tendiamo a ricompensare solo le risposte “giuste” e a penalizzare quelle “sbagliate”, eppure “sbagliando s’inventa”.
Le scuole hanno le loro regole e regolamenti, i loro modelli normativi di procedura, di condotta e coercizione, troppo spesso chi si conforma, rinunciando a sé, riesce a convivervi in maniera più serena di quello non conformista e molto fantasioso. Nelle scuole quotidianamente assistiamo a veri e propri delitti. Inoltre le idee divergenti possono essere spesso originali e di valore, ma possono anche essere stravaganti e sciocche, inducendo l’insegnante a sospettare che il bambino stia soltanto “facendo il furbo”. Sfortunatamente (o fortunatamente) la creatività è una cosa imprevedibile e noi non possiamo pretendere che si estrinsechi sempre in una forma adatta alle circostanze del momento: proprio in questa fase nascono le innovazioni che disgregano le alternative fino ad allora postulate e le prospettive calcolate. Ciò che noi possiamo fare è cercare di essere consapevoli del contesto in cui ci muoviamo e del suo passato e che la nostra disciplina, come molte di quelle umanistiche sta vivendo un periodo di profonda crisi rispetto ai temi che abbiamo affrontato. In quest’ottica squisitamente storica possiamo, forse, provare a metterci in discussione. Impegnarci insomma a scrivere noi quel capitolo cinque che Marc Bloch non fece in tempo a cominciare.
E magari farlo con un po’ di fantasia.
[Bibliografia]
Se vuoi leggere di più su come è stato scritto questo articolo, butta un occhio qui.
Note (↵ returns to text)- J.J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, Mondadori, Milano, 1997, p. 9.↵
- M. Foucault, Sorvegliare e Punire, Einaudi, 2005.↵
- Pensiamo a R. Esposito, Bios, Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004 ma ci rendiamo conto che il ragionamento può apparire forzato e portare a una forza centrifuga rispetto al ragionamento che portiamo avanti, ma è un argomento che a nostro avviso andrebbe meglio affrontato.↵
- La storia di questa “istituzione” attiva nella prima parte del Novecento a Casinalbo (Modena) e gli eventi connessi alla sua attività sono al centro della nostra attuale ricerca e riflessione storica.↵
- F. Basaglia, L’istituzione negata, Dalai Editore, Milano, 2010.↵
- Tipico dell’epoca categorizzare in questo modo coloro che facevano parte di istituzioni socio assistenziali. Le scuole speciali non fanno differenza. Interessante in proposito: A. Pirella, P. Tranchina (a cura di), Matrici, Manicomio Scuola Istituti per minori Psicoanalisi Tecnica Politica Istituzioni nei “Fogli di Informazione” ciclostilati, Pistoia, Centro di documentazione di Pistoia editrice, 2000.↵
- Dal latino con-stringere, mettere qualcuno nella necessità di dover fare qualcosa contro la propria volontà.↵
- Matematico, economista, filosofo e politico entrò a far parte dell’Accademia delle scienze nel 1769 e instaurò una proficua collaborazione con Voltaire e D’Alembert. Partecipò inoltre attivamente alla rivoluzione francese tra i girondini.↵
- Soltanto per citarne uno, si veda ad esempio A. De Bernardi, S. Guarracino, La conoscenza storica, Milano, Bruno Mondadori Scolastica, 2000.↵
- R. Owen (1771-1858), Una nuova visione della società, 1813, in M. Pancaldi, Linee di Storia della Pedagogia tra Ottocento e Novecento: http://www.ilgiardinodeipensieri.eu/storiafil/pancaldi-1.htm↵
- Tantissimi e differenziabili per epoca e per teoria di appartenenza sarebbero gli esempi e le metodologie utilizzate. Per non allontanarci dalla rivoluzione industriale e dal Fordismo che di li a breve si diffuse, interessanti e, agli occhi di un contemporaneo quasi divertenti, appaiono l’organizzazione della didattica suddivisa per orari e a volte nel dettaglio minuto per minuto, la ricerca di strumenti didattici ripetibili e a basso costo, l’organizzazione degli studi seguendo il concetto della catena di montaggio (gli studenti imparano e insegnano ai più giovani) e così via.↵
- U. Avale, E. Cassola, Pedagogisti e pedagogie nella storia, Paravia, 1994, p. 373.↵
- H. Spencer, A. Saloni (a cura di), Educazione intellettuale, morale e fisica, La nuova Italia, Firenze, 1973.↵
- É. Durkheim, La sociologia e l’educazione, Ledizioni, Milano, 2009.↵
- M. Pancaldi, Linee di Storia della Pedagogia tra Ottocento e Novecento: http://www.ilgiardinodeipensieri.eu/storiafil/pancaldi-1.htm↵
- La riforma voluta dal filosofo Giovanni Gentile entrò in vigore nel 1923 durante il governo della dittatura fascista di Mussolini. La norma rimase invariata sino al 1962 e nonostante fosse stata in parte modificata dalla legge n. 1859 del 31 dicembre del 1962 in epoca repubblicana, rimase comunque il fondamento dell’istruzione professionale e della scuola media italiana.↵
- M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino, 1998.↵
- P. Panarello, Il soggetto post-moderno, http://www.compu.unime.it/illuminazioni/numero9/4.rtf↵
- J. Bruner, La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari, 1993.↵
- I taccuini sono ora pubblicati a cura di Pievani, 2008. Per approfondimenti consultate il sito http://www.darwinproject.ac.uk/ da cui potrete scaricare opere, articoli e corrispondenze integrali.↵
- G. Rodari, Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino, 1973.↵
- Ibidem, p. 170.↵
- Ibidem, cit.12.↵
- B. Munari, Fantasia, Laterza, Roma-Bari, 2011 . Si consiglia di precedere tale lettura con il più consistente ed esaustivo approccio teorico B. Munari, Da cosa nasce cosa, Laterza, Roma-Bari, 1981.↵
- M. Dallari, In una notte di luna vuota, Centro Studi Erikson 2008.↵
- J. P. Guilford, 1897-1987, psicologo americano.↵
- Si veda in proposito H. Gardner, Sapere per comprendere, Feltrinelli, Milano, 2009, oppure Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento, Edizioni Erickson, 2005.↵
-
- Jean-Jacques Rousseau, Emilio o dell’educazione, Mondadori, Milano 1997.
- Michel Foucault, Sorvegliare e Punire, Einaudi, Torino 2005.
- Roberto Esposito, Bios, biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004.
- Franco Basaglia, L’istituzione negata, Dalai Editore, Milano, 2010.
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