In “Cronaca di una morte annunciata” di Gabriel Garcia Marquez, nelle prime pagine del libro, troviamo questo brano.
Era un’abitudine assennata che aveva stabilito suo padre da quando una mattina una domestica scosse il cuscino per togliere la federa, e la pistola lasciò partire un colpo nell’urtare contro il suolo, e la pallottola distrusse l’armadio della camera, attraversò la parete del salotto, passò con fracasso di guerra per la camera da pranzo della casa vicina e ridusse in polvere di gesso un santo di dimensioni naturali sull’altare maggiore della chiesa, all’altro estremo della piazza.
Non ripeterò la solita riflessione a proposito di quanto si legge e si dice in giro. Secondo infatti l’opinione corrente, il lettore non ama i periodi lunghi. Quindi le frasi devono essere brevi, proprio per evitare che si stanchi. Poi come al solito arriva un Nobel, e manda all’aria tutto.
Ricordo che Garcia Marquez scriveva così anche prima dell’assegnazione del premio.
Il mio consiglio? Prendi pure nota di quello che si trova in giro a proposito di come si deve scrivere, ma non trasformarlo in un dogma.
Però non è di questo che volevo scrivere e parlare. Mi sono domandato se quella pallottola, non fosse anche il simbolo di come una narrazione debba essere. Forse si tratta di una rappresentazione di quello che la parola può combinare, se calibrata bene e curata a dovere.
Il lettore prende in mano il libro come se fosse un oggetto uguale a tutti gli altri. È abituato così. Non è in grado di prevedere cosa capiterà. Forse qualcosa, forse nulla, ma la portata esatta dell’esperienza che vivrà non gli è dato sapere. Pensa che si tratta solo di un libro: che potere potrà mai scatenare? Sono storie e nient’altro, vero?
Se poi è molto giovane, di fatto sembrerà simile a un viaggiatore che sbarca in una terra straniera. Curioso, ma tutto sommato certo che tornerà a casa identico a sempre. È lì per dovere, oppure per piacere o ancora per provare un’esperienza del tutto nuova.
Quel libro, può far esplodere una detonazione: fuori di lui, ma soprattutto dentro. Le ripercussioni che scatena sono imprevedibili, e non solo perché mandano in frantumi la statua di un povero santo all’altro estremo della piazza.
Una storia scritta con cura e autentico rispetto per il lettore, non dovrebbe lasciarlo nella stessa condizione in cui era prima di iniziare a leggere. Un libro dovrebbe essere una pistola, ma non perché denuncia i mali della società, o fa i nomi e cognomi, e li inchioda al muro. Anche questo forse, benché io abbia un’opinione al riguardo un poco particolare. Però non è di questo che desidero scrivere.
La vera “detonazione” avviene quando il lettore apre gli occhi, e il suo sguardo si posa su cose e persone ma è differente. Eppure non ha fatto nulla di strabiliante: ha “solo” letto un libro. Quelle virgole, quei punti e virgola e punti, e le parole, hanno zittito in maniera prepotente il cicaleccio del mondo. E se anche dopo tornerà a farsi udire, non sarà più possibile dimenticare quel momento di consapevolezza nuova e piena.
Qualcosa (un pregiudizio? Una prospettiva sbagliata?) si è polverizzato. D’un tratto appare, per un istante, un’immagine nuova della realtà. Poi tutto torna a essere uguale, più o meno. Ma il lettore, quel lettore, sa che d’ora in avanti lui sarà differente, anche se per un po’ la sua condotta sarà la solita.
Tutto questo non capita sovente. Di rado dentro la federa di un cuscino è custodita una pistola che cade a terra, e fa esplodere il proiettile. Quando tuttavia succede, coinvolge sempre pochi individui, e per loro niente sarà più come prima. Fortunati loro…