Ad ogni passo un nuovo mondo si dischiude sotto il piede del poeta camminatore che, come un bambino, è capace di imbattersi in spaventosi giganti, incontrare professori, conversare amabilmente con cantanti e attrici famose, ingaggiarsi in cortesi ma taglienti tenzoni con sarti perfidi e ironici.
E se il lettore potrebbe non credere a ciò che gli viene raccontato, in un universo dominato dalle leggi dell’individualità, dove le percezioni appaiono più concrete della realtà esterna, i sensi diventano l’unica guida e il solo punto di riferimento: «la terra si faceva sogno, io stesso ero divenuto interiorità e procedevo come dentro di essa. Ogni forma esteriore si dissolse, il finora compreso divenne incomprensibile».
Colui che passeggia è colto da ogni sorta di pensieri e di idee così che, ben presto, tra l’incanto e lo stupore, comincia a farsi strada una sensazione di malinconia e sottile inquietudine, che lo conduce al dubbio che le meraviglie godute sino a quel momento non siano altro che fiori da deporre sulla sua tomba al termine del cammino e, fuor di metafora, della vita stessa. È su questo pensiero e, insieme, sulla consapevolezza dell’insolubile intreccio tra felicità ed infelicità dell’uomo, che calano le tenebre e si chiude il racconto.
La Passeggiata diventa così emblema della scrittura nomade ed erratica di Walser, solerte passeggiatore, dell’approccio alla vita velato di nostalgico romanticismo tipico di uno scrittore che ha condotto un’esistenza difficile e tormentata, punteggiata di difficoltà economiche e crisi allucinatorie e che solo dopo la morte è stato ammesso tra i massimi autori di lingua tedesca del Novecento e posto sullo stesso piano di autori come Kafka, Musil e Rilke.
Robert Walser, La Passeggiata, traduzione di Emilio Castellani, Milano, Adelphi, 1976.
vedi anche: Carl Seelig, Passeggiate con Robert Walser, Milano, Adelphi, 1981.