8 marzo 1607: il principe Pignatelli, nell’acconsentire alla richiesta di alcuni coloni provenienti da Trebisacce, Castelsaraceno e Viggianello di abitare e coltivare terre in località detta San Georgio,lo fa alle sue condizioni, imponendo tutta una serie di pesi fiscalie di obblighi, fra cui il divieto di possedere terreni coltivati a grano.
E’ vero che possono coltivarlo nelle terre del principe, ma il corrispettivo è ben salato e la terra non rende abbastanza per farvi fronte. Meglio coltivare le vigne di proprietà e poi esercitare la capacità di esperti mietitori per conto terzi. E’ quanto faranno i discendenti dei primi coloni.
Nell’animo, però, resta il desiderio della ricchezza proibita.
I coloni sognano di spogliare il signore della sua ricchezza, di abbassarlo almeno una volta al proprio livello, di dominarlo anche solo simbolicamente.
Su questa base, secondo alcuni studiosi di antropologia, si sviluppò il gioco o danza della falce, che, ammantato di risvolti sociali, rappresenta in forma simbolica la rivolta, la contiene entro confini fisicamente non pericolosi, filtra le pulsioni attraverso sistemi simbolico-culturali.
E’ la tesi che emerge dal commento che accompagna le immagini riprese a San Giorgio Lucano durante la storica spedizione di Ernesto De Martino in Lucania nel 1952. Le penetranti fotografie
di Franco Pinna e le successive immagini dai toni fortemente marcati del cortometraggio di Lino Del Frà si prestano bene a fare da supporto.
L’interpretazione si è consolidata nel tempo e la ritroviamo anni dopo: “La danza della falce è una vera e propria rievocazione storica, alla maniera contadina, di due secoli di feudalità oppressiva che è ancora viva nel ricordo dei più vecchi di San Giorgio Lucano”.
“L’azione, che si svolge verso il tramonto, ha per attori i mietitori che si accingono a falciare l’ultimo pezzo di messe, la legante cioè la donna che raccoglie le spighe falciate per legarle insieme e formare la gregna, alcuni zampognari e il caprone, che è sempre il proprietario del campo… Quando i mietitori lo scorgono, accelerano il ritmo del lavoro e, raggiuntolo, lo immobilizzano con le falci che ora, terminata la mietitura, diventano arma di vendetta e di riscatto.
Il riscatto consiste in una bevuta di vino collettiva.
(Relazione del prof. Gaetano Stigliano al Primo Congresso internazionale delle tradizioni popolari, Metaponto Lido, 1986 ).
fotografiche e riprese filmiche. Ai lavori di De Martino e Pinna si aggiungono il cortometraggio di
Lino Del Frà del 1960, le riprese di Folco Quilici del 1967...
L’azione, già nel documento del 1952, si compone di due momenti distinti: la cattura-uccisione del capro e il gioco vero e proprio, che coinvolge anche il padrone:
"Il tema centrale è il mascheramento dell'azione del mietere: i mietitori cioè si comportano come
se l'operazione che essi compiono non fosse la mietitura, ma una battuta di caccia al capro.
Un vecchio contadino fa da capro: due mazzetti di spighe tenuti fra le labbra, una pelle di capro legata alla schiena, i falcetti impugnati all'altezza della testa in modo da dare l'immagine delle corna, occhi sbarrati di animale braccato..."
"I mietitori avanzano al suono della zampogna, mimando la mietitura: si muovono a ritmo,
come se danzassero, oppure si arrestano improvvisamente, assumendo qualche atteggiamento determinato..."
"Ben presto la pantomima si complica: i mietitori fanno le viste di combattersi fra loro, variamente raggruppandosi a due o tre, ed eseguendo con la falce varie figure agonistiche."
"L'eccitazione cresce, finché non si rivolge al padrone, che è cercato, inseguito e catturato..."
"Intorno al padrone i mietitori eseguono la solita pantomima della mietitura, e quindi con la punta della falce lo spogliano...”
“A spoliazione avvenuta, vengono fatte circolare sul campo mietuto alcune bottiglie di vino."
(Ernesto De Martino, La messe del dolore in Furore, Simbolo, Valore, Il Saggiatore, Milano 1962).
Foto di Franco Pinna , 1959
fonte: http://www.prolocosangiorgiolucano.it/Gioco_della_Falce.pdf