Recensione
Neozelandese di nascita e inglese d’adozione, Katherine Mansfield è stata una scrittrice famosa soprattutto per i suoi racconti. Un personaggio anticonformista che visse una vita breve, interrotta presto dalla tubercolosi, e che utilizzò la scrittura come mezzo salvifico per fermare il tempo.
In questa raccolta di recensioni che va dal 1919 al 1920, pubblicate a suo tempo, su una rivista diretta dal marito, ci racconta le sue idee su quanto va leggendo.
Non sta fuori, la Mansfield; non sta seduta sullo sgabello del critico letterario. Entra nella fucina, si mette il grembiule da ragazzo di bottega e si sporca le mani. Conosce le difficoltà, le fatiche, i tranelli del mestiere. Non giudica freddamente ma, come una piccola ape operosa, considera analiticamente ogni singolo racconto, ogni passaggio, ogni sfumatura. E pesa, misura, valuta, senza presunzione ma con ironia, con intelligenza e puntuta ostinazione, il valore di ogni parola, l’ordine esatto di ogni frase, il tono di ogni dialogo.
E’ una voce diretta sulla scrittura e le sue necessità; un dialogo tra se stessa scrittrice e se stessa recensore. Un trama di fili che attraversa le altrui opere, in lettura, per ritornare poi alla sua scrittura, alla definizione di essa e alla riflessione sui suoi scritti.
Si tratta di un piccolo, delizioso zibaldone di pensieri che ci illumina sull’autrice, sulla sua visione dell’arte, soprattutto nella forma della narrazione breve.
E’, infatti, il racconto breve l’abitante più illustre e corteggiato di questo saggio: un ladro abilissimo e furbo, che affascina, lascia intravedere, di sé, cose intime, per poi fuggire. Non si lascia acchiappare, men che meno studiare, perché, di fatto, sostiene la Mansfield, pochi scrittori sanno dare una forma e un senso a una storia, entro i ricami precisi e limitati del racconto breve.
Di questo saggio non tanto mi hanno attirata le riflessioni sugli scrittori dell’epoca, lontani e non sempre conosciuti, quanto piuttosto la personalità dell'autrice, le sue attenzioni alla narrativa propria ed altrui.
Ella ci sgrana il suo rosario a grani grossi: concetti chiari, definiti, che lei desidera e chiede sottendano a una scrittura degna del lettore. La necessità di una visione d’insieme, della realtà e del cuore della vicenda, donata intera al lettore, senza simulazioni e senza interruzioni.
E’ vero che la vita talvolta è precipitosa e senza respiro, ma non sempre. Se siamo veramente vivi ci sono ampie pause durante le quali ci addentriamo nelle grotte della contemplazione.La coscienza, inoltre, che ci debba essere, nella storia, un crescendo: dei fatti messi in fila ma percorsi dalla necessità di un climax, una progressione che sia credibile e sincera, ritmata ma sorprendente.
Il climax, dunque, è il principale degli elementi centrali, e l’impegno e le emozioni sono tappe nel nostro viaggio di avvicinamento, o di allontanamento, da questo punto. Poiché senza climax, la forma del romanzo, come la intendiamo è perduta.Nei confronti di Virginia Woolf poi, una gigantessa dell’epoca, la Mansfield ondeggia tra rispetto, riverenza per la scrittrice e desiderio insopprimibile di dire quanto pensa, quanto le prude, tra le righe. Le rimprovera, infatti, un distacco, una freddezza in fondo, che permette alla scrittura della Wolf di esibirsi in tutta la sua eleganza e compiutezza, senza però che ci sia un palpito vero, umano, in essa.
Sembra che l’autrice, con il suo saggio sorriso, sia indifferente, così come lo sono i fiori, nei confronti di quelle strane creature che sono gli esseri umani e della loro natura. La vita minuscola e ricca di una lumaca, come riesce a descriverla!
Chiama a gran voce la necessità di un lettore che, leggendo una storia, possa entrare nel gorgo di un’anima; a che servono descrizioni minute, fiori dipinti fin nelle sfumature, borsette spiegate come se potessimo toccarle, se non ad avvicinarci a una vita, a un dolore, a un amore?
E’ Čechov invece il faro luminoso della Mansfield, un russo capace, come gli scrittori russi sono, di portarci al centro di una vita, al centro di un dramma, di una felicità, di un tormento, nel giro di dieci pagine.
Allora, come nei racconti di Čechov, percepiremmo la pioggia che ticchetta sul tetto per tutta la notte, il vento spossato e febbrile, il frutteto illuminato dalla luna e la prima neve, resi appassionatamente non come l’analogo di uno stato mentale, ma come qualcosa che unisce la mente a un insieme più vasto
Il narrare deve, dunque, avere la sua necessità: se si descrive un personaggio, deve avere una sua complessità e un senso preciso, all’interno della storia. Se si descrive un cane, una torta, un tramonto, devono poter raccontare al lettore la storia segreta che canta dentro a ogni intreccio: non interessa al lettore sapere che l’ingranaggio funzioni bene, gli interessa la musica che ne scaturisce.
Sono scritto in prosa. Sono molto più breve di un romanzo; potrei essere lungo solo una pagina, tuttavia non c’è ragione per cui le pagine non possano essere trenta. Ho una qualità speciale, un qualcosa di immediatamente riconoscibile che mi appartiene e fa parte della mia essenza. Infatti mi rivelo spesso alla prima frase. Sembra quasi che questo qualcosa determini la mia sopravvivenza o la mia caduta.
A fronte di ingranaggi perfettamente funzionanti ma che non producono musica, lo scrittore fallisce, clamorosamente, il proprio compito.
Nel romanzo appare necessario sentire la musica, non una ma mille musiche diverse, suonate con diversi strumenti, da mani diverse. Poterne riconoscere la diversità, poterla scegliere. Per costruire la giusta partitura, però, lo scrittore deve volare come un rapace, radente e teso sulla sua preda, la storia da raccontare.
Ma questo comportamento, per quanto possa essere affascinante in una libellula, è assai poco adeguato quando viene adottato da uno scrittore di narrativa.
Polemizza quindi la Mansfield sugli scrittori libellula, veloci e rapidi sulle cose ma anche tanto leggeri e inconsistenti. Serve un cuore e una parola forte per dare qualcosa degno di lettura:
Devi sentire prima di pensare; devi pensare prima di esprimere te stesso. Non è sufficiente sentire e scrivere o pensare e scrivere. La vera espressione è l’insieme delle due cose, che poi risulterà una terza cosa ancora.
Se dovessimo stilare una lista dei migliori scrittori per Mansfield, diremmo i russi, poi Conrad e Forster. In generale, gli scrittori, quelli che riescono a dar vita al romanzo, usano l’ironia, la precisione nel raccontare cose, persone e sentimenti, un senso dell’unitarietà del minuscolo universo che vanno descrivendo, accanto ad un forte sentimento di verità.
Infine, un rispetto infinito che, unitamente alla fiducia, dovrebbe unire ogni scrittore ai propri lettori, chiunque essi siano, in qualunque parte del mondo vivano.
Il saggio, se così lo si vuole definire, è composto da tanti scritti brevi, molto gradevoli e con uno stile interlocutorio; gli scrittori di cui si parla sono spesso poco noti, talvolta famosissimi. In alcuni momenti è difficile seguire i commenti che si riferiscono a testi pubblicati e letti in quegli anni ma, nel complesso la scrittura brillante, ironica e talentuosa della Mansfiel riesce a coinvolgere e a legare tutti gli scritti, in un diario sulla narrativa dei primi del '900. Lo consiglierei agli appassionati della prosa breve a agli estimatori di Katherine Mansfield.
Giudizio:
+4stelle+Dettagli del libro
- Titolo: La passione della scrittura
- Titolo originale: Novels and Novelists
- Autore: Katherine Mansfield
- Traduttore: Ornella De Zordo
- Editore: Baldini Castoldi Dalai
- Data di Pubblicazione: 1999
- Collana: I Nani
- ISBN-13: 8880897152
- Pagine: 189
- Formato - Prezzo: Brossura - 15,00