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La patata saluta e se ne va. E anche il mais sta per seguirla. Si lavorano i campi per produrre… energia!

Creato il 07 aprile 2013 da Cremonademocratica @paolozignani

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Patate addio, la Lombardia non vi sopporta più! Sì, molti amano le dorate croccanti, salate o dolci patate o patatine, come contorno o spuntino, cucinate con finezza o divorate con entusiasmo, eppure sotto il sole smorto di Maroni si rischia di non vederne più una che è una. E nella foto ecco un disperato cultore del gusto di patata brancolare nella nebbia alla ricerca del tubero!
Addio patate, Lo dice l’articolo supertecnicissimo qui sotto, che non sorprenderà gli informatissimi agricoltori e industriali, ma lascia di sale e senza intingolo colui che spasmodicamente anela al contorno. Niente, non se ne coltivano più, se non in modo residuale! Ma come!? E non solo. Tutto, o almeno più che si può, va a finire in malinconiche biomasse bersagliate di critiche da parte degli amici del verde, dell’agricoltura di una volta e anche delle patatine fritte. L’articolo qui preso dal sito della centrale regionale per gli acquisti parla chiaro: anche il mais prende quella strada e diventa bruciante biomasse, altro che farina o altro. E tutto per produrre energia.
Difficile, a una prima profana impressione, non comprendere lo sgomento del presidente dell’Alpropat (Associazione lombarda produttori di patate) Carlo Giani. Per aprire la pagina del sito Arca Lombardia cliccare qui.

C’è ancora spazio per la patata negli indirizzi colturali delle aziende lombarde? L’interrogativo nasce spontaneo a fronte del crollo delle superfici investite che, stando ai dati Istat, nell’arco degli ultimi cinque anni da oltre 1600 ettari sono scese al di sotto di 1000, mentre la produzione complessiva, per larghissima parte destinata alla trasformazione industriale, si è ridotta da mezzo milione a meno di 300mila quintali. «Stiamo vivendo una situazione che non esito a definire drammatica e temo che in questa campagna raggiungeremo a malapena i cento ettari coltivati a patata da industria», conferma Carlo Giani, presidente dell’Alpropat, l’OP di settore che conta 250 soci, dei quali soltanto 27 hanno prodotto patata da industria nel 2011, su un’estensione di 116 ettari e per un totale di poco più di 4000 tonnellate conferite per il 90% alle industrie di trasformazione in chips. La disaffezione degli agricoltori lombardi nei confronti di una coltura che in passato riusciva a garantire una remunerazione giudicata soddisfacente rispecchia una situazione generalizzata su scala nazionale e nasce in primo luogo dal lievitare dei costi produttivi, ormai superiori ai ricavi, che invece si restringono. L’intesa raggiunta lo scorso febbraio per la firma dell’accordo interprofessionale relativo alle patate destinate alla trasformazione industriale prevede infatti un ribasso dei prezzi, in linea con il trend delle quotazioni del prodotto nell’Unione Europea. Si è scesi così da 158 a 150 euro la tonnellata (-5,1%) per la fascia A e da 143 a 139 euro la tonnellata (-2,8%) per la fascia B. «Purtroppo il percorso che avevamo pensato di costruire negli anni passati con gli industriali del settore si è trasformato in un vicolo cieco», fa presente Giani, «a causa soprattutto di mancanza di lungimiranza da parte delle imprese trasformatrici. Ritenevamo di aver fatto comprendere alla controparte industriale l’esigenza di contratti pluriennali che avrebbero spinto i nostri agricoltori a effettuare investimenti nella pataticoltura innalzando il livello di competitività dell’intera filiera e garantendo una continuità nelle forniture, ma devo dire che ci eravamo illusi, visto che l’unica preoccupazione dell’industria sembra essere quella di perseguire una politica di prezzi europei».

A queste condizioni i produttori lombardi, così come quelli delle altre regioni, non sono disposti a confermare gli investimenti e preferiscono andare alla ricerca di valide alternative. «Nelle nostre zone c’è ormai una corsa alla produzione di biomasse ad uso energetico e anche il mais sta prendendo quella destinazione», riprende l’intervistato. «La remuneratività viene giudicata in qualche modo soddisfacente ma, a livello personale, lavorare la terra per produrre energia è un’ipotesi che mi lascia l’amaro in bocca». A rendere ancora più cupo lo scenario pataticolo interviene la mancanza di certezze sull’erogazione del contributo ministeriale gestito dalle Op e finalizzato a una corretta gestione del mercato delle patate destinate alla trasformazione industriale, al miglioramento della qualità e al sostegno dei centri di raccolta. Com’è noto, la produzione delle patate, sia a destinazione industriale sia da consumo fresco, non è mai stata soggetta a una Ocm comunitaria, vista la decisione dell’Unione Europea di lasciare la regolamentazione del settore alle dinamiche del libero mercato, con la possibilità però da parte degli Stati membri di attivare aiuti di Stato. Poiché tali aiuti a partire dal 1° gennaio 2012 non sono più ammessi, si tratta di individuare altri canali attraverso i quali far pervenire risorse alla pataticoltura, che negli ultimi anni si sono attestate intorno ai 7-8 milioni di euro/anno, con un’incidenza sul fatturato del comparto pataticolo intorno all’1%, e che sono ritenute fondamentali per il funzionamento della filiera. «Erano soldi ben spesi, che sono sempre andati agli agricoltori e che sono serviti ad attenuare le ricadute delle cicliche crisi di mercato, contribuendo in qualche modo ad alleggerire un conto colturale dai margini sempre più ristretti», commenta il presidente di Alpropat, sottolineando come nel lievitare dei costi di coltivazione della patata incida pesantemente, oltre ai rincari del gasolio, dei concimi e degli altri mezzi tecnici con i quali peraltro tutti gli agricoltori devono fare i conti, la spesa relativa all’acquisto del seme, quasi interamente importato, corrispondente a oltre un quarto del costo complessivo. Un aspetto che penalizza fortemente i pataticoltori lombardi e italiani in genere, dal momento che il ricarico sul seme può arrivare a superare il 40% del costo iniziale in funzione dei passaggi attraverso i distributori. A tutto ciò si aggiungono il difficilissimo rapporto con la Gdo, per nulla rispettosa dei termini di pagamento delle forniture, e quello sempre più tormentato con gli istituti bancari, la forte frammentazione della struttura produttiva, l’incapacità di fare massa critica. «Ritengo che i nostri associati abbiano già fatto tutto quello che potevano nella direzione di ottimizzare i fattori della produzione», conclude Giani. «Se il settore pataticolo ancora sopravvive è merito della capacità degli agricoltori di tirare la cinghia ma francamente non riesco a vedere prospettive per il futuro, a meno che non intervenga un cambiamento di rotta».

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