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La paura dello sceneggiatore prima del calcio di rigore. Il caso de “Le meraviglie” di Alice Rohrwacher

Creato il 05 dicembre 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Alice Rohrwacher, nonostante la breve filmografia, si conferma un’interessante promessa del cinema italiano. La sua capacità di descrizione dei personaggi appare come la testimonianza di una profonda conoscenza dei caratteri che intende descrivere, che vengono restituiti senza cliché, risultando sempre veri e credibili. La frequentazione del vero è attitudine rara nel cinema italiano presente, che appare lontano anni luce dalla lezione neo-realista. Se nel neo-realismo i personaggi erano strumenti al servizio di un’operazione-verità sulla società, nel cinema della Rohrwacher emerge una specifica predilezione per gli specifici dei personaggi che sono spesso estratti dal suo mondo personale, come nel caso di Le meraviglie, fortemente legato alla sua autobiografia. Sebbene il personaggio a lei più vicino sia la ragazzina adolescente, tutti gli altri sono tratteggiati con rigore ed attenzione, rifuggendo trucchi e fronzoli. Analizzando il suo ultimo film, Le meraviglie, rispetto al suo precedente lavoro, Corpo celeste (2011), emerge un’evidente differenza.  In Corpo celeste la struttura narrativa e la costruzione semantica assumevano un ruolo centrale producendo un racconto forte, coraggioso, schierato, politico. Nell’ ultimo lungometraggio, invece, assistiamo ad un passo indietro dell’autrice, sia sceneggiatore sia regista, che si limita a ricostruire scene della sua vita (suo padre, di origine tedesca, è realmente un apicoltore e il film è girato sui suoi terreni). Il rapporto con un padre brusco, forse deluso dall’aver avuto solo figlie femmine che prova ad educare come maschi, la figlia più grande che cerca di non deludere suo padre ed un riavvicinamento tra i due tutto realizzato sulla materialità del fare, sono elementi interessanti che potevano costruire i punti di partenza del racconto ma appaiono inadeguati a realizzare una narrazione autosufficiente che voglia rivolgersi ad una vasta umanità.

Pur accettando l’idea che un film autobiografico, per sua natura, tenda a sfuggire ad una lettura politica, resta il fatto che se si tratta dell’autobiografia di una vita comune, necessita di una struttura che lo renda interessante per lo spettatore, permettendogli di comprendere e partecipare ai processi narrati. Ma questi processi di strutturazione, di costruzione di significati generali sono esattamente ciò che mette in crisi chiunque oggi si confronti con il mondo della produzione artistica, sceneggiatori in prima fila.

Corpo celeste

Il punto è: per essere veri occorre limitarsi a descrivere il reale minuto e quotidiano? Certamente la descrizione del reale assicura la verità, per costruzione, come si dice nei processi di dimostrazioni matematiche.  Ma questo documentarismo “entomologico” (si passi il termine) non è il processo più coraggioso ed interessante per il cinema “realista”. All’autore cinematografico si chiede di esprimere idee, concetti, opinioni, strutturando il suo pensiero senza adulterarlo o conformarlo a partiti presi dalle maggioranze. Ma in questa fase storica assistiamo alla rarefazione dell’espressione concettuale e quando un’élite di sceneggiatori si azzarda ad esprimere concetti, spesso si limita a pescare in un serbatoio di idee politically correct che rappresenta una sorta di pret-a-porter per esponenti liberal-chic. Ormai siamo giunti nella preoccupante condizione in cui le major statunitensi e i cineasti indipendenti condividono lo stesso background culturale.  La maggior parte degli altri cineasti preferisce raccontare storie senza costrutti politici, senza idee forti, che resta pur sempre la scelta meno rischiosa per essere accettati da un vasto pubblico.

Per quanto concerne l’ultimo film della Rohrwacher, se per un verso si può ritenere che la struttura sospesa del racconto derivi dalla natura intimamente personale dei fatti narrati, che non facilitava l’introduzione di elementi drammaturgici, dall’altro ci sono anche elementi che fanno pensare a un’incertezza (quella che si potrebbe, appunto, chiamare la paura dello sceneggiatore) nel maneggiare la struttura concettuale. Un bambino viene inviato da un riformatorio tedesco presso l’azienda di apicoltura italiana dove è ambientata la storia. L’unico scopo a cui assolve la sua presenza è quello di perdersi ed essere ritrovato dalla figlia del protagonista.

Le meraviglie

Eppure il bambino rappresentava il figlio maschio che il padre avrebbe desiderato, e per un istante lo si capisce, ma questo plot, appena accennato, viene presto abbandonato (troppo maschilista?). Il bambino viene da una vita difficile, qui sembra trasformarsi, ma questo cambiamento non passa attraverso nessuna fase, avviene fuori dallo sguardo della macchina da presa, semplicemente non è raccontato. C’era il rischio di un racconto troppo pedagogico sulla scia di quanto fece Truffaut con I 400 colpi (1959) o Il ragazzo selvaggio (1969)? Anche il bambino tedesco non parla come il ragazzo selvaggio ed appare disconnesso dalla sua famiglia di origine, ma qui non si vuole azzardare nessuna correlazione tra natura e metropoli né tantomeno tra famiglia e sostituti famigliari come ne I 400 colpi.

Il padre scontroso sembra sciogliersi nel finale, ma a seguito di quale accadimento? La figlia non gli riporta il bambino scomparso ed egli non sa che lei lo ha ritrovato.

Se è vero che la modernità cinematografica ci ha abituato alle ellissi e alle disarticolazioni narrative se ad essere sconnesso è il principio di causalità non siamo più di fronte ad una innovazione stilistica del linguaggio ma ad un arretramento ideale. Una censura delle idee che segue la morte delle ideologie. Ma rispetto a chi ha già dimostrato di saper fare ancora un cinema politico non resta che augurarci un ritorno di impegno e di coraggio nel fare ancora cinema di idee.

Pasquale D’Aiello


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