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La pazzia nel bianco e nel cristallo: Lucia di Lammermoor all’Opera di Roma

Creato il 03 aprile 2015 da Thefreak @TheFreak_ITA

Il titolo scelto dal Teatro dell’Opera in coincidenza delle feste pasquali del 2015 è Lucia di Lammermoor, l’opera seria più rappresentata di Gaetano Donizetti. La direzione è di Roberto Abbado, la regìa, postuma, di Luca Ronconi.

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La vicenda è ripresa da Walter Scott: Lucia, nobildonna scozzese, si innamora di Edgardo, nemico della sua famiglia, specie del di lei fratello, il quale la inganna, facendole credere che Edgardo la tradisca, e le fa sposare Arturo, nobile scozzese al quale lo lega una evidente partigianeria politica. Lucia acconsente ma, proprio quando firma il contratto nuziale, irrompe Edgardo e, vistosi lui stesso tradito dalla donna amata, la maledice e fugge sconvolto. Lucia, impazzita dal dolore, uccide il marito Arturo, e muore ella stessa. Edgardo, al quale tutto si chiarisce quando è ormai troppo tardi, si uccide sulla tomba degli avi.

Messa in scena a Napoli nel 1835, quando il San Carlo era il fulcro da cui si irradiava nel mondo lo stile d’opera all’italiana, alla versione originale Donizetti apporta diverse aggiunte e sostituzioni, secondo la prassi del tempo: arie riprese da altre composizioni, a seconda della vocalità del cantante di turno, non per semplice dilettantismo (come potrebbe apparire agli occhi nostri), ma perché l’abbellimento, il gusto, la ricerca del plenum, erano tutt’uno con il rito di laica liturgia che si teneva in teatro: più l’aria incontrava la vocalità del cantante, più alle stelle spiccava la melodia sorgente. Vittima il testo, che era a servizio della musica, fino a che Wagner non balenasse nell’orizzonte anche italiano, liberatosi lui per primo dalle chimere belcantistiche, che pure da giovane lo avevano formato.

Su questa scìa, la prassi esecutiva aveva fatto oggetto di tagli, sottrazioni, spericolati interventi, le opere donizettiane, ma anche rossiniane, di Verdi e Bellini, e con loro di tutto il folto corteo di stile italiano: più snella l’opera, più breve la durata, più efficace (agli occhi del pubblico, e fors’anche dei direttori e concertatori) la messinscena. Fino a quando, da ormai circa tre decennî, si è ripreso a rappresentare in maniera integrale (o quasi) queste composizioni, con buona pace della filologia, dei ben pensanti e del

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testo latu sensu, ma con il risultato (occorre ammetterlo) di un ispessimento delle difficoltà per i cantanti che, crediamo, sia uno dei problemi principali dell’abbassamento generale delle qualità vocali degli interpreti di questo primo secolo Ventunesimo.

A ciò vanno aggiunti i tempi più serrati di quelli che v’erano sino agli anni Sessanta del Novecento, tanto per la velocità delle vie di comunicazione, che di fatto hanno almeno raddoppiato le serate in cui un cantante (e un orchestrale) può esibirsi durante l’anno in giro per il mondo, quanto per esigenze di mercato, che sottopongono a vere prove di forza la voce e la prestazione degli interpreti. Il risultato è una qualità generale di non troppa eccezionalità, e lo sparire di titoli portanti del repertorio italiano, fra i quali quelli di Donizetti hanno subìto il colpo più forte: La favorita è di ciò esempio sovrano, che da dramma conosciutissimo qual era è divenuto, nel giro di pochi anni, opera misconosciuta.

L’ampia parentesi è doverosa per comprendere le particolarità della messinscena romana di Lucia di Lammermoor.

Almeno quest’opera non è affatto sparita dai cartelloni teatrali, ma sono sparite quelle recite eccezionali che facevano del titolo la consacrazione (o la tomba) dei cantanti che vi si cimentavano. L’opera si nota, allora, più per la vicenda tormentata, pienamente romantica, tra tombe, ambientazioni nordiche e fanciulle astrette a doveri familiari e impazzite per amore, che non per l’assoluto virtuosismo, la sublime bellezza, la gigantesca sovrabbondanza delle melodie che in essa stanno. Eppure, stavolta, in Roma, Lucia è tornata ad essere (quasi) tutto questo.

Si dica subito che, dal cartellone, ci si aspettava di più: Stefano Secco tenore, Marco Caria baritono, Carlo Cigni basso sono nomi di tutto rispetto, che fanno un buon cast: accostati a Jessica Pratt soprano, nella parte del titolo, completano in bellezza il biglietto da visita.

Eppure, la direzione di Roberto Abbado convince a tratti: il maestro è una delle eccellenze italiane e si ricorda, nelle ultime stagioni romane, per una mirabile Gioconda (2012), uno ieratico Maometto II (2014). Ben intesi, si ricorderà in bene anche per questa Lucia, ma non come per le due direzioni precedenti. I tempi sono quelli giusti, ma il carattere spesso manca, stancamente, e la bellissima partitura perde spesso quella possibilità, che pure le è data, di aggredire il pubblico, di conquistarlo, di inebriarlo. Felicissimi però per la rappresentazione dell’opera pressoché integrale, senza il taglio dell’aria del basso al II atto, nonché del bellissimo duetto baritono-tenore in apertura del III: solo tre cabalette non sono state ripetute, il che equivale a dire ben poca roba.

Mirabile è il famoso Sestetto del II atto, Chi mi frena in tal momento, in cui tutto è come dovrebbe. Giusta ed equa è quanto si può dire della direzione, dunque, eccetto che per la prima parte dell’opera, ove gravemente orchestra e Coro erano fuori tempo, troppo.

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Marco Caria, nel ruolo di Enrico, fratello di Lucia, è un baritono dall’ottimo timbro, quello che occorre per questa parte: eppure si stanca facilmente, due cabalette non ripetute sono sue (I atto e duetto con il tenore al III), nonché non ha dato prova di aver compreso bene la parte, perché cantava da spiritato, non da crudo e funesto, né da nobile decaduto tutto preso nel tentare di risalire la china che lo travolge, inesorabile.

Il basso, Carlo Cigni, è un ottimo Raimondo, pastore protestante della famiglia di Lucia, e dà prova di grande maestria nell’aria del II atto, che non è stata soppressa, come spesso accade. Eppure, proprio nella grande scena in cui interrompe il Coro festante con l’annuncio dell’uccisione di Arturo per mano della impazzita Lucia, non tuona come pure dovrebbe nell’aria Dalle stanze ove Lucia, e viene completamente inghiottito dal Coro, che è il solo punto fermo, sempre, di ogni rappresentazione dell’Opera romana, sotto la direzione di Roberto Gabbiani, forse il maestro di Coro migliore che l’Italia abbia oggigiorno.

Si venga alla nota dolente: di Stefano Secco si conosce la serietà, la capacità di star sempre nella parte; ma pure, si riconosce il timbro, assai piccolo, che bene sta a un Nemorino (dunque, timbro da opera buffa), ma poco lo si vede nella parte del grande innamorato eroe Edgardo, al quale Donizetti riserva una tra le pagine più belle che il teatro d’opera conosca per tenore. L’ultima scena non è della protagonista, di Lucia, ma proprio del tenore (cosa che mandò in bestia la prima Lucia, nella rappresentazione napoletana del 1835, volendo lei stessa chiudere l’opera). Recitativo (Tombe degli avi miei), aria (Fra poco a me ricovero), tempo di mezzo e cabaletta (Tu che a Dio spiegasti l’ali) sono le parti di cui si compone l’ultima scena, quint’essenza del canto tenorile: se non si sanno cantare questi, non si è tenore. Stefano Secco canta, e non canta male.

Canta, ma non canta bene. Il si acuto a cui ascende la cadenza dell’aria comincia malissimo, fa temere il peggio, ma un demone benigno interviene e tira fuori un boato, bello, incredibile. Ma Tu che a Dio spiegasti l’ali uccide sempre tutti, perché tutto in ascesa, raddoppiato, e al termine di una parte in cui il tenore canta da solo per venti minuti. Qui morì una volta Pavarotti, qui calano tutti gli altri tenori. Qui Stefano Secco non cala, ma è piccolo piccolo, e trambascia a terra, feritosi a morte, non per finzione, ma per vera realtà.

Cosa fa Jessica Pratt, Lucia? Jessica Pratt dimostra come l’opera lirica non è cosa passata. Dimostra come le grandi cantanti non siano finite. Dimostra come il pubblico possa ancora crollare dalle balconate più alte, in grida, evviva, stramazzi e strepiti. Dimostra come anche il compostissimo signor Enzo, veterano dell’opera, possa perdere la solita placidità, e abbandonarsi al «Brava!» più sincero. Jessica Pratt canta sempre in maniera sicura, con tutti i vocalizzi e le variazioni in bravura richieste alla parte. L’aria del I atto è bellissima. I duetti, tutti come andrebbero eseguiti. Ma la scena che si ricorderà è quella della pazzia: il soprano è una pazza, che sale dove la voce umana è difficile che arrivi. La accompagna uno strumento, antico, raro, desueto, che dà alla testa, che stordisce e impaura. Poi, già da metà Ottocento, questo strumento fu sostituito dal flauto, che risale in alto, con la voce, sicuro, netto.

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Ma Roberto Abbado già negli anni Novanta ripropose al Teatro alla Scala questo strumento: è la glassarmonica, o glass harmonica, armonica a bicchieri. Dei bicchieri di cristallo vengono strofinati, da essi si èleva un suono stridente, fuori dal comune, non armonico, non bello, che trapana la testa, che traballa, e aliena. Il soprano canta sulla scena, questi bicchieri stridono in risposta dall’orchestra: lei e loro, soli, giungono dove per poco gli unici a sentire non sarebbero i pipistrelli. Poi il soprano termina la lunghissima cadenza, e Jessica Pratt lo fa con un tuono, che colpisce a morte. Il teatro è un grido, un grido di pazzi.

Infine, la regìa di Ronconi. Ci poniamo in un coro che sta in minoranza, ma a noi mai sono piaciute le regìe d’opera di Ronconi. Questa è la solita: gabbie sospese in aria, scale e torri sceniche, poco altro. Le metafore sono scontate: se una fanciulla è costretta dal fratello a vendersi al marito che conviene, e per questo muore di pazzia, metterla in gabbia, dietro sbarre, crediamo non sia cosa poi così originale. Che Enrico, il di lei fratello, strarnazzi per la scena quando Edgardo entra nel palazzo e maledice la sorella, come farebbe un armigero qualunque, senza fulminarlo con il solo sguardo protetto dai suoi, ridicolizza il tutto. Che Edgardo muoia sul cadavere di Lucia, portato sulla scena, e non da solo, abbandonato, tra i negletti avelli dei parenti, sembra finale da sceneggiato televisivo di soggetto risorgimentale.

Una cosa però è da notare: il bianco delle scenografie, nitido e sovrano, in tutti i quadri: è il macabro bianco, senza ombre, senza sangue, senza oggetti. È un pallor funesto, orrendo, è il bianco della morte. È quello che è straniante, è quello che, con i cristalli sfregati, fa impazzire, e porta al confine del reale, dove la vita o si fa arte, o cessa del tutto. Ed è il modo con cui Ronconi si congeda.

di Valerio Tripoli All rights reserved


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