La pecora nera

Creato il 29 settembre 2010 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Il folle, il santo, il saggio. Sappiamo bene con quanta naturalezza queste figure archetipiche si mescolino, circoscrivendo zone d’indiscernibilità, in cui non è più possibile operare una netta distinzione. Deleuze, in “Critica e clinica”, suggeriva che il problema non consiste nel ‘divenire folli’, ma “nell’attraversare la follia in buona salute”. Insomma i disturbi mentali non costituiscono solo una dimensione di privazione (rispetto alla normalità), ma, innanzi tutto e per lo più, sono dei vettori di deterritorializazzione che, quando riescono a smarcare il muro semiotico del capitale, possono inoltrarsi in nuovi territori, innescando un processo di ‘molecolarizazzione’ che libera consistenti quote di creatività.

Ascanio Celestini esordisce alla regia senza incertezze, confrontandosi con la questione della malattia mentale, e lo fa con l’abilità ciarliera del suo linguaggio libero, pronto a divenire musica, litania, nenia infantile e flusso orale che attraversa lo spettatore. E si, perché l’idiozia è uno stato che si raggiunge con l’afasia, è un balbettare che non significa (alcunché), è il silenzio di una selva di significanti che si dipana sulla linea che collega gli inconsci. Bisogna meritarsela l’idiozia, non è concessa a tutti; è uno stato di grazia, è ‘la posizione del mistico’ in cui l’ecceso del ‘reale’ non può mai essere tradotto nell’ordine simbolico. Oppure, senza cedere troppo a suggestioni provocate dall’ineffabilità di ciò che non può essere detto, si potrebbe affermare che la follia è il vuoto all’interno di una situazione, è quella zona di rottura frequentata da tutti quelli che rimangono cocciutamente fedeli allo straziante eccesso della verità (una verità). Insomma degli eroi.

Celestini però, che ha ben compreso lo spirito che anima la post-modernità, alla dimensione tragica dell’eroe preferisce quella tragicomica. Difatti, siamo esseri post-moderni proprio perché capiamo che tutti i prodotti di consumo, così esteticamente attraenti, faranno la fine dei rifiuti. Si perde il senso del tragico e si percepisce il progresso come ridicolo.

Lasciando la valutazione degli aspetti giuridici e istituzionali della faccenda agli ‘esperti’, si può almeno tentare qualche agile riflessione per delineare uno scenario: se in Perdona e dimentica (2009), Todd Solondz registrava con lo stesso tono tragicomico di Celestini la diffusione allarmante dei disturbi psichici nella società contemporanea, disegnando un quadro agghiacciante, altrettanto lecito appare provare ad operare un rovesciamento, immaginando un futuro (non così lontano) in cui la malattia (mentale) non faccia più problema, proprio perché talmente radicata da non potersi più definire tale (rispetto ad una presunta normalità). Probabilmente si compierebbe il passaggio definitivo al comico, attraverso l’azzeramento della differenza par exellence (normalità – diversità), inaugurando una stagione post-edipica, in cui all’esclusività dei rapporti familiari si sostituirebbe una relazionalità intersoggettiva nuova, ancora tutta da praticare, quella della ‘moltitudine’, cioè un insieme aperto pronto ad accogliere al suo interno tutti coloro che con la creatività, la cooperazione, gli affetti, e le conoscenze, scandiscono la propria esistenza, consci della necessità di un patrimonio “comune” che li determini come individui.

La pecora nera è un ottimo film, non facile, come afferma lo stesso autore, che anzi lo definisce “in salita”. “Ci vuole uno sforzo” continua Celestini “uno sforzo che però può essere sostenuto da tutti”.

Bravo Celestini.

Luca Biscontini


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