27 GENNAIO – Solo negli ultimi sei mesi, in Italia, sono stati pubblicati oltre settanta libri sul tema della crisi che la democrazia sta attraversando in tutto l’Occidente. La democrazia, riscoperta a metà dell’Ottocento, ha vissuto una fase di grande espansione nella seconda metà del secolo scorso, ma negli ultimi venti anni ha attraversato un periodo di evidente difficoltà. Durante una tavola rotonda organizzata a Legnago dalla Scuola di Formazione all’impegno sociale e politico della diocesi di Verona, sono intervenuti sul tema il prof. Giovanni Bresadola e Don Davide Vicentini, in qualità di relatori. Bresadola ha aperto la discussione osservando il dato inequivocabile del grave calo del numero dei votanti e degli iscritti ai partiti. “Si ha un livello di gradimento sempre più basso dei partiti, fermo ad appena il 2% -ha sottolineato-. La partecipazione attiva nelle nostre democrazie è diventata un optional poco praticato. Sono in crisi clamorosa i partiti, che nel nostro Paese continuano a cambiare mentre all’estero sono i soliti partiti storici ormai collaudati. Sono sempre più forti le spaccature tra fronti elettorali, con difficoltà a dare continuità politica e a trovare una base di convinzioni comuni su cui lavorare. C’è una crisi della rappresentanza, la gente si sente sempre meno rappresentata dalla politica, con la nascita di forme di antipolitica sempre più diffuse. C’è anche una grave crisi delle istituzioni, che vengono spesso messe in discussione e delegittimate”. Il risultato è che si ha difficoltà a discutere in termini di speranza e di progettualità. In realtà; simili situazioni si sono verificate anche in passato nell’evoluzione della democrazia. Platone scriveva, nella Repubblica, che la democrazia diventa anarchia e demagogia nel momento in cui chi governa non persegue il bene comune. Sembra l’abbia scritto oggi.
Ma perché la piazza si pone in modo così critico nei confronti del palazzo, delle istituzioni democratiche e dei rappresentanti che lo occupano? Bresadola cerca una risposta: “Oggi –continua- l’antipolitica fa riferimento a quattro atteggiamenti particolari: i movimenti di protesta, che si trovano dappertutto e si fondano su tante ragioni diverse, il populismo che mette al centro la gente e i cittadini, la demagogia che risolve le questioni sul piano di un linguaggio forte ed, infine, l’antipolitica con il suo atteggiamento di alternatività alla politica. La situazione italiana attuale non è del tutto anomala infatti i primi testi sui movimenti di protesta sono stati scritti nei Paesi scandinavi. Le proteste nascono spesso spontaneamente, per iniziativa di persone coinvolte in singole problematiche che si danno un’autoinvestitura ritenendo di essere più rappresentative della politica su di un certo tema. C’è un comitato per ogni occasione e alcuni, come quello anti-Tav, hanno assunto grande importanza. Talvolta in piazza scendono anche associazioni che mettono insieme interessi di categoria e che si oppongono o promuovono certi cambiamenti, ai quali il mondo della politica non sa dare risposta”. Fin qui niente di sbagliato, se non fosse che troppo spesso le proteste vengono condotte solo per evitare un danno diretto ai propri interessi personali e particolari. È la mentalità di chi si oppone con fermezza, ad esempio, non alla costruzione di discariche in generale, ma di quelle vicine a casa propria.
“Il populismo è una mentalità per cui si ritiene che il popolo sia depositario dei veri valori e dei veri problemi, cui la politica non sa rispondere” prosegue Bresadola. “E’ usato in contrasto alle élites politiche ed economiche, evidenziando come la verità stia sempre dalla parte del popolo, defraudato da caste di intoccabili. Spesso emerge un leader che ha un rapporto diretto con la gente e che si fa teoricamente interprete di questi interessi, come accade ancora oggi in Sudamerica. Tuttavia; il populismo ha un rapporto di amore e odio con i media: da un lato li sfrutta per diffonderne il messaggio, dall’altro polemizza contro di essi dicendo che sono a servizio delle stesse élites. Quanto a richiesta e proposta politica; di solito si riduce a professare che il popolo ha sempre ragione e che ciò che esso vuole è bene e deve essere attuato. E’ un atteggiamento che contraddistigue, ad esempio, la conclamata iperdemocrazia di Beppe Grillo”.
La demagogia, invece, è la posizione politica e comunicativa di chi è sempre contro, in polemica anche strumentale nei confronti di scelte politiche ritenute ideologiche rispetto a valori assoluti condivisi. “E’ la politica dei gesti eclatanti, di chi fa blocchi stradali, di chi organizza manifestazioni spontanee per far vedere che tutto il sistema è negativo, che chi fa politica lo fa solo per interesse personale e che quindi bisogna agire in discontinuità. La demagogia viene usata quando si parla alla pancia delle persone. Si sospetta sempre di quanto la politica mette in campo e si fa un ampio uso della retorica e del moralismo”.
L’antipolitica, infine, può essere ben espressa dalla frase di Lusso piove, governo ladro! per cui la politica è responsabile di tutto quel che succede. È conseguenza del fatto che negli anni ‘70-‘80-‘90 la politica ha invaso ogni ambito sociale, per cui oggi si trova a rispondere di un po’ di tutto. Tutti affermano di appartenere ad una categoria, ma mai a quella dei politici, accusata di non pensare concretamente ai problemi della gente. Il nemico, per l’antipolitica, è la Casta in generale.
In questo scenario generale, ad un tratto irrompe con potenza la piazza. “La piazza nella storia d’Italia ha avuto un importante significato –afferma il relatore-. Nella democrazia italiana la piazza è una costante, un momento di coesione sostitutivo di una unità culturale che è sempre mancata. La piazza ha sempre fatto riferimento a persone forti, assumendo un atteggiamento da spettatore che delega la propria responsabilità. La piazza entra in gioco in ognuna delle tanti crisi perenni in cui si trova il Paese”. Mussolini, in particolare, faceva riferimento al fascismo come a tutto il popolo italiano, sfruttando furbescamente il concetto. Un noto esempio è anche il movimento del Qualunquismo di Guglielmo Giannini del 1946, che aveva come motto quel famoso non ci rompete le scatole, rivolto proprio alla politica. Nel periodo della Guerra Fredda la piazza ebbe un grande ruolo nella contrapposizione fra DC e PC. La si è poi ritrovata nel movimento sessantottino, che molto si rifaceva all’idea di popolo. “Durante Tangentopoli –continua Bresadola- era nata una forte protesta di piazza, si avevano prove lampanti dell’esistenza di una casta da cambiare e furono alcuni nuovi partiti come Lega Nord e Forza Italia a farsi paladini di questo rinnovamento, usando strumenti piuttosto populistici. Tuttavia; la storia del populismo insegna che, finora almeno, esso ha avuto una parabola sempre uguale: all’inizio un movimento o un atteggiamento si impone attraverso la protesta o la retorica moralistica, poi scende in campo e crea una proposta politica nella quale cerca di ottenere un voto di protesta, infine punta alla mera ricerca del potere e le sue divisioni interne ne segnano la fine. Josè Ortega y Gasset nel 1917 scrisse che i popoli cercano sempre un pastore o un mastino perche è difficile essere semplici cittadini. Per fare ciò occorre prendersi delle responsabilità, mentre la massa che si raduna nelle piazze tende sempre a farsi strumentalizzare, anche in modo inconsapevole, da chi vuole servirsene per raggiungere il potere”.
“Contro questo atteggiamento –conclude- bisogna tornare a una politica che sia liturgia, servizio della persona. Quando si ribellano le masse si crea una democrazia morbosa, fatta di risentimento. Come conclusione positiva, bisogna però anche ricordare che la piazza in sé non è negativa ma lo è quando diventa massa, strumento informe entro il quale la persona viene meno. Per essere cittadino all’interno di una democrazia bisogna praticare la logica della responsabilità, per cui anche la politica deve tornare alla progettualità. Prima che ad una svolta politica bisogna pensare a una svolta culturale, che faccia tornare alla sobrietà degli stili e dei comportamenti. Ci vuole, in buona sostanza, onestà e competenza”.
La Dottrina Sociale della Chiesa risponde che ciò che caratterizza un popolo è la condivisione di vita e valori, fonte di comunione a livello sia spirituale che morale. Una comunità è solidamente fondata quando tende alla promozione integrale della persona e del bene comune. Non a caso, negli anni Novanta, Zagrebelsky scrisse Il Crucifige e la democrazia, che tratta il rapporto fra democrazia e popolo, facendo riferimento al processo a Gesù su di un piano politico. E’ un episodio particolarmente significativo di condanna di un innocente e di assoluzione di un delinquente, che don Davide Vicentini spiega così: “La scelta dell’autorità legittima, Ponzio Pilato, è quella di lavarsene le mani e di rivolgersi alla folla chiedendo, come di consuetudine, che cosa voglia fare. Così Pilato dà alla folla la possibilità di godere un diritto che la fa sentire partecipe e che deresponsabilizza la politica, portando a un risultato che non coincide con ciò che è giusto. Allo stesso modo, se trovassimo esponenti politici pronti a convertire in legge tutto ciò che la piazza chiede, le conseguenze sarebbero drammatiche”. La massa ha sempre avuto la grande funzione di rendere evidente ciò che è un malessere, un problema, una difficoltà generalmente sentita, ma storicamente essa non è mai stata la soluzione al problema, eccetto che nel caso in cui ne sia uscito un riformatore capace. Non sempre questi sommovimenti hanno degli esponenti di spicco, la massa ha dunque una grande valenza ma anche un grande limite.
“Benedetto XVI –continua don Vicentini- ha usato il termine poliarchia, che esprime il concetto per cui la piazza oggi è un insieme di realtà di vario genere, quali la politica, l’economia e la società. La poliarchia contrasta con la monarchia, intesa come sistema in cui la società è governata da una sola istituzione. Oggi la piazza dà un eccessivo rilievo alla politica, che non può però dare risposta a tutte le richieste della società, in quanto non è la politica a determinare oggi ogni situazione della realtà in cui viviamo. Il bene della piazza, della società, deriva da un equilibrio fra i vari soggetti che la compongono. Può diventare dunque un problema se nella riflessione sociale siamo ancora dell’idea che la politica sia l’unico elemento strutturante del vivere sociale. Le manifestazioni non intercettano, oggi, tutti gli elementi del vivere sociale per cui la politica diventa sempre più fragile, essendo sbagliato il referente della protesta. La globalizzazione ha fatto sì che la politica abbia meno strumenti che in passato, come rispetto alle scelte europee o internazionali. La poliarchia ci permette di recuperare il legame fra i tre ambiti sociale, politico ed economico. Oggi il palazzo della politica si occupa più che di gestione della legge di produzione di norme che complicano tutto. Infatti il vivere sociale è perlopiù determinato dall’economia. La politica non riesce neanche più a formulare delle priorità fra quelle poste dall’economia e dalla società: i parlamenti si trovano quasi solo a recepire i decreti e le proposte del governo, che è maggiormente capace di decidere. Non si comprende se l’economia vada regolamentata o deregolamentata, non si comprende se il mercato abbia bisogno di norme o si possa normare da solo”. Nel mondo economico si moltiplicano allora fenomeni di regolazione e autoregolazione che favoriscono solo i grandi potentati. Dieci anni fa; si riteneva che bisognasse riformare le banche ed è accaduto che la politica le obbligasse a fondersi in pochi poli. Nel frattempo si è assistito al forte disgregamento della società, per cui ogni gruppo sociale manifesta contro gli altri urlando le proprie ragioni e dimenticando di ascoltare anche quelle degli altri. La rottura è evidente fra le generazioni, ciascuna rivendica diritti in contrasto con quelli richiesti dagli altri, senza più riuscire a creare una sinergia. Sui figli e nipoti cadono le conseguenze della gestione dei genitori o nonni.
Continua il relatore: “Anche se trovassimo qualcuno che ascolta la società, siamo sicuri che la società diventerà migliore? La poliarchia ci dice che, in una società, il bene comune può essere facilitato nella misura in cui ciascun soggetto non prevarichi sull’altro. E’ l’idea della sussidiarietà verticale e orizzontale, non sempre presente nel nostro pensiero. Oltre all’importanza della politica bisogna riconoscere l’importanza dell’economia, occorre una riflessione su aspetti diversi. Al momento ciascuno pensa di non poter far nulla per cambiare le cose. Si può partire invece proprio dai luoghi in cui si è, senza delegare agli altri decisioni su ambiti nei quali già ci troviamo. Abbiamo bisogno di bravi politici come anche di bravi economisti, bravi professionisti, bravi educatori… Solo così la protesta della folla può trovare la via istituzionale della carità come si legge nelle pagine della Caritas in veritate”. Pertanto; oltre alla carità al prossimo c’è una carità istituzionale che richiede che nell’ambito in cui ognuno opera si faccia tutto il bene possibile alle persone che ci stanno accanto. La piazza si sgombera facendo capire che la rottura sociale non porta a niente mentre la sussidiarietà ci dice che, a partire da ciò che è possibile fare, possiamo essere messi nelle condizioni di continuare a farlo. Spesso si sente parlare della crisi dei sistemi, ma dobbiamo ricordare anche la crisi delle persone all’interno di quei sistemi.
“Oltre che della crisi della politica o dell’economia, bisogna parlare della crisi dei politici o degli economisti –conclude don Vicentini-. Così diventa più semplice lavorare per la formazione della coscienza sociale. Occorre che qualcuno crei situazioni nuove affinché si ottenga un cambiamento. Serve un percorso di formazione della propria coscienza per cui, negli ambiti in cui si vive, ognuno sia in grado di fare ciò che è importante. Continuando a delegare o a indicare altri come unici responsabili; la situazione è destinata a incancrenirsi. Fino a pochi anni fa in effetti la politica era in grado di decidere su molti campi, ma con la globalizzazione e la crisi degli Stati la sovranità è stata demandata a soggetti diversi e quindi si rischia di sbagliare il soggetto da criticare”. Attualmente; i Forconi sono la prima forma di contestazione che fisicamente non coincide con una camminata verso una piazza, ma nella quale la manifestazione è formata da impassibili ed è autogestita da nord a sud. In essa è assente ed esclusa la politica o il sindacato, inoltre è una manifestazione che coinvolge soprattutto quelle categorie che sono state illuse dalla politica. La vera democrazia, in conclusione, non si fa togliendo le strutture che si frappongono fra palazzo e piazza, ma semmai creando strutture che responsabilizzino le coscienze in tutti gli ambiti. Occorre far in modo che si possa interloquire, altrimenti si avrà sempre un prevalere di una parte e il rifugiarsi nell’antipolitica di chi ne è escluso.
Nelle democrazie occidentali mancano luoghi di discernimento collettivo, in cui le persone si incontrino per guardare alla realtà insieme e per formare un proprio giudizio razionale, inoltre anche il momento del voto ha assunto un significato episodico e poco valido, dato che la scelta dell’elettore viene poi cambiata facilmente. Sono tutti aspetti di una società individualista e relativista in cui l’altro dà fastidio e la propria verità è l’unica ammissibile. Occorre imparare, invece, a dialogare, ad ascoltare gli altri, a capire che l’interesse individuale non è l’unico esistente. Bisogna informare e formare sui temi di interesse sociale, non limitarsi a fare propaganda sterile.
Enrico Vanzo
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