Singapore, 25 feb 2013, ore 17:31, Footprints Hostel
La Malacca è una penisola strana. Partendo dalla Thailandia si slancia verso sud nel mar delle Andamane, per poi sfociare nello stretto a cui dà il nome. Ad un certo punto forma un istmo che sembra quasi staccarsi dal continente asiatico, per poi riallargarsi e culminare come una punta di lancia; una lancia verde che affonda nell’azzurro del mare. In questa penisola coesistono tre stati. La Thailandia, da cui tutto ha origine. La Malesia, che forma la picca della lancia, e Singapore, che altro non è che la punta estrema dell’asta. La città stato è l’ultimo baluardo di continente, il confine tra la terra e le diciottomila isole che formano l’Indonesia. In realtà, essa stessa è già un’isola, ma la distanza che la separa dalla Malesia è talmente poca che dalle cartine, e dalla sua dimensione, non si ha affatto l’impressione di essere su un’isola. Non si ha nemmeno la sensazione di essere in Asia. Si è a Singapore. Punto.
Due anni dopo la mia prima visita eccomi di nuovo a qui. E’ bello cercare di ricordare i luoghi da me visitati in passato. A volte i ricordi sono freschissimi, come se fossi appena andato via. Altre volte, le cose, me le ricordavo completamente diverse.
La città si riconferma guazzabuglio di razze, religioni e costumi. Le lingue si mescolano, così come le cucine ed i colori. Impossibile definire asiatica questa parte di mondo, così come impossibile sarebbe non definirla tale. In realtà è come essere in un limbo, in un punto di passaggio tra l’Inghilterra colonizzatrice ed il vicino continente. Sono tanti gli aspetti che confondono. I cibi sono asiatici. Noodles, dumplings e riso si mescolano e si originano da mille ricette diverse, imparate da nonne sparse tra l’India e il Giappone. La skyline è europea, o americana. Occidentale. Decine e decine di grattacieli nuovissimi, dalle vetrate a specchio, che svettano scintillanti dalla terra per poi tuffarsi nel cielo. Ai loro piedi, le acque verdi dei mari del sud non hanno identità. Le piante ed i parchi sono Asia, o per meglio dire, piccole giungle equatoriali. Tra la città ed il parallelo più famoso ci sono solo 150 chilometri, e i parchi della città, per lo più abbondanti e rigogliosi, risentono di questa vicinanza. Zeppi di piante verdissime e di fiori colorati, essi evocano alla mente le immagini che, da europei, siamo abituati a vedere solo nelle enciclopedie che raccontano di Paesi lontani. La ricchezza è occidentale. Ogni palazzo o strada o centro commerciale o cantiere in costruzione trasuda benessere. Uno dei principali centri finanziari del mondo, nonché uno dei porti più trafficati del mondo, è anche uno stato molto piccolo, dove gli abitanti hanno un reddito pro capite medio da fare invidia a Montecarlo. Gli odori sono asiatici senza dubbio. Che si tratti di Little India o di Chinatown, gli odori delle bancarelle che vendono cibi, degli incensi, degli assembramenti umani e delle strade, hanno tutti i sapori dell’oriente, dei bazar, delle spezie. In ultimo vengono gli abitanti. Questi non sono né asiatici né occidentali. Sono di Singapore, che è un modo come un altro per dire che vengono dall’Asia come dall’Occidente, come dall’ultima Babilonia forse ancora in piedi nel mondo. Ci si sente a casa anche se non lo si è.
L’Australia è ormai lontana. La sua vicinanza è data solo dal clima, da quella stagione delle piogge che speravo essermi lasciato alle spalle. Invece eccola qui. Due anni fa incontrai qui la pioggia per la prima volta dalla mia partenza. Ora la rincontro dopo aver appena lasciato Darwin. Un po’ la maledico, ma non troppo. Giusto perché mi impedisce di vagabondare libero per le strade della città. Però va detto che questa pioggia mi permette di starmene seduto sotto al portico, in attesa che smetta, e di osservare la vita muoversi in mezzo all’umido che scroscia dal cielo. Starsene in pace a guardare persone che si inzuppano lungo le strade, mentre sotto al portico godo del vento, del fresco e della sedia comoda. E poi, del resto, non c’è nessuna fretta. Viaggio.