Man mano però che si vedevano crescere quegli «imprenditori con le unghie sporche di terra», parallelamente avveniva un silente e inesorabile mutamento del paesaggio. La Riviera del Brenta, il Terraglio, strade che collegano Venezia a Padova e Treviso, anticamente dolcissimi percorsi dalle architetture solenni e armoniche, residenze estive della nobiltà della Serenissima, le cui sale ospitavano e ospitano affreschi e opere dei più celebri maestri ammirati in tutto il mondo, sono state teatro di una speculazione edilizia senza precedenti. Sono sorti ovunque e comunque i “Capannoni”. Enormi “balene bianche” immobili nella cui pancia cresceva l’economia della piccola e media industria. Ma anche enormi e invalicabili “barriere” fisiche e mentali, sulle quali pian piano, sempre di più, andavano a infrangersi gli sguardi di chi cercava i colori, i profumi e i ricordi di un mondo nascosto, offuscato dai valori sempre più messi in secondo piano rispetto a quello materiale degli “Schei” stupendamente raccontato nell’omonimo libro del giornalista Gian Antonio Stella.
Sono stati gli anni dell’orgoglio ritrovato, del “lavoro prima di tutto”, delle tasche piene e del petto in fuori. Ma anche gli anni delle villette coi nani in giardino e le sbarre alle finestre. Dell’avversione per lo straniero, nero, giallo, blu o marroncino, troppe volte a tutt’oggi ancora definito dai giornali locali il “vucumprà”. Ma ancora sono stati gli anni del Suv parcheggiato sul marciapiede, o del Porsche, del BMW, del Mercedes o del Ferrarino (costantemente e impietosamente declinati al maschile, in barba agli sforzi del poeta Gabriele D’Annunzio che alla lingua Italiana regalò il concetto di automobile-femmina) che sfreccia sulle strade del litorale. E dei capannoni, ancora capannoni, sempre di più. All’emancipazione economica nel nord-est purtroppo però non è seguita, di pari passo, una crescita culturale. Lo rivela quasi involontariamente, nell’ambito della piacevole presentazione di Piazzola sul Brenta, il politico di turno, sorridente e certamente in buona fede nell’illustrare e promuovere con forza e orgoglio la collezione sulla pittura veneta di Electa. Egli continua, imperterrito, più e più volte, a definire l’opera letteraria un “prodotto”. Orribile “aziendo-logismo” mutuato da chissà quale “meeting” o “brain-storming” che sarebbe ideale se si stesse parlando del “brand” del “marketing” o, più terra terra, di formaggio, frumento, scarpe o bulloni, ma che in questo ambito grida vendetta.
L’opera “La pittura nel Veneto” nata sotto la direzione editoriale di Carlo Pirovano, vede la luce in questo scenario. Lo sforzo è indubbiamente senza precedenti e l’intento è raggiunto: raccontare l’arte veneta dalle origini fino alla fine del secolo scorso. Dal 1988, anno della pubblicazione del primo tomo, fino ad oggi, sono stati pubblicati 17 volumi monografici curati da un comitato scientifico composto dai massimi studiosi: Enrico Castelnuovo, Michel Laclotte, Michael Levey, David Rosand, Federico Zeri (piccola lacuna è forse il non aver ospitato le parole di Augusto Gentili, massimo studioso del Cinquecento veneziano) e concepiti in otto macro-sezioni “Le origini e il Duecento”, “Il Trecento”, “Il Quattrocento”, “Il Cinquecento”, “Il Seicento”, “Il Settecento”, “L’Ottocento” e “Il Novecento”. Un lungo e appassionante viaggio, accompagnato da una ricchissima offerta di immagini, ci porta alla scoperta dei più grandi maestri veneziani e veneti che, con la loro mano, hanno raccontato da prima la grandezza della Serenissima, e poi l’incalzare delle avanguardie culturali e artistiche degli ultimi secoli.
Tutto è narrato con perizia storica e ricerca del coinvolgimento del lettore. Dalle prime decorazioni musive e a fresco delle chiese dell’VIII secolo, ai capolavori di Giovanni Bellini, Giorgione da Castelfranco, Tiziano e Tintoretto, fino ad arrivare alle splendide atmosfere di Tiepolo, e ai campi veneziani dipinti da Antonio Canal detto il Canaletto. Per giungere, in tempi più vicini a noi, alla fotografia, alle performance, alle video-installazioni offerte dalla Biennale di Venezia. Quest’opera letteraria, esattamente come “il kalashnikov” invocato dal celebre conduttore di “Passepartout”, oppure la macchina fotografica invocata come strumento di denuncia da Oliviero Toscani, va vista non solo come un enorme lavoro di ricerca storico-artistica, ma anche e soprattutto come uno strumento da impugnare per ritrovare e liberare il paesaggio e la bellezza di una regione unica al mondo.
Per approfondire
L’intervento di Philippe Daverio a Villa Contarini in occasione della presentazione della collana: