National Geographic – Il gruppo di ricerca che ha condotto lo studio, guidato dal geografo Franck Lavigne della Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne, sostiene che quest’eruzione che diffuse la sua cenere da un polo all’altro del pianeta avrebbe avuto origine dal vulcano Samalas, che si trova sull’isola indonesiana di Lombok. E l’ha datata tra maggio e ottobre del 1257. “È da trent’anni – da quando i glaciologi ottennero le prove dell’eruzione – che si cerca di capire quale vulcano l’abbia prodotta”, racconta Lavigne. I vulcanologi ne hanno cercato l’origine ovunque, dal vulcano Okataina in Nuova Zelanda al vulcano El Chichón messicano. Secondo gli scienziati, quest’eruzione fu di magnitùdo otto volte superiore rispetto a quella della famigerata esplosione del Krakatau del 1883 e due volte quella del Tambora del 1815. “Finora si era creduto che l’eruzione più devastante degli ultimi 3.700 anni fosse stata quella del vulcano Tambora”, continua Lavigne, ma la nostra ricerca rivela che quella del 1257 fu ancora peggiore. Un’indagine interdisciplinare Per risolvere il mistero, il gruppo di ricerca, costituito da scienziati provenienti da vari ambiti, ha unito risultati già esistenti con dati nuovi ottenuti con la datazione al radiocarbonio e analisi chimiche di detriti vulcanici, studi stratigrafici e documenti storici. “Quest’eruzione era già nota a numerosi ricercatori di discipline diverse”, spiega Lavigne, “ma probabilmente ognuno di loro ha sempre lavorato individualmente, senza confrontarsi con gli altri. Sono convinto che questo sia un punto chiave da tenere presente nel momento in cui si vogliano intraprendere ricerche su altre eruzioni. Il nostro gruppo univa geologi, geochimici, geografi, storici, esperti della datazione al radiocarbonio e molti altri scienziati: la combinazione di diverse specializzazioni è stata fondamentale per riuscire a interpretare i vari tipi di dati”. Il cataclisma scagliò in cielo ben 40 chilometri cubi di detriti, che arrivarono a 43.000 metri di altezza. Quando ricaddero, si depositarono su tutto il pianeta. Gli scienziati hanno analizzato campioni di questi depositi vulcanici prelevati da oltre 130 punti diversi per ottenere un quadro stratigrafico e sedimentologico che li aiutasse a capire come si svolse l’eruzione. Per rendere più precisa la datazione dell’eruzione, i ricercatori hanno analizzato campioni di tronchi d’albero carbonizzati e di alcuni rami che si trovavano sul fianco dei vulcani Samalas e Rinjani. I dati ricavati dal radiocarbonio hanno collocato l’eruzione intorno alla metà del XIII secolo e hanno escluso che i campioni analizzati fossero antecedenti al 1257. In questo modo, è stato possibile escludere altri vulcani, come l’El Chichón e l’Okataina: le eruzioni da essi prodotte risalgono a un periodo incompatibile con questo intervallo di tempo. Spingendosi ancora più lontano, gli scienziati si sono concentrati sul solfato e sulla tefrite vulcanici rimasti intrappolati all’interno di carote di ghiaccio prelevate sia in Groenlandia che in Antartide. Secondo Lavigne, l’”impronta digitale” geochimica dell’eruzione sarebbe stata individuata due decenni fa. “Dall’analisi delle carote di ghiaccio vicino a entrambi i poli sappiamo che l’eruzione fu tropicale”. Questo dato ricavato dall’analisi delle carote di ghiaccio ha ristretto il campo ulteriormente, escludendo dalla rosa dei candidati il vulcano Quilitoa in Ecuador, che aveva prodotto una massiccia eruzione circa nello stesso periodo. I risultati dello studio della composizione geochimica di frammenti vetrosi ritrovati negli strati di ghiaccio sia della Groenlandia che dell’Antartide, invece, hanno escluso il vulcano Quilitoa, poiché il vetro delle sue tefriti è risultato incompatibile con quello dei frammenti. Al contrario, il vetro del vulcano Samalas è risultato compatibile. “Questo mostra che ci sono molte cose delle eruzioni vulcaniche che non sappiamo, anche riguardanti questioni che potrebbero sembrare basilari, soprattutto relative a queste eruzioni così imponenti”, dice Ben Andrews, geologo del Global Volcanism Program della Smithsonian Institution e responsabile di un database pubblico che raccoglie le eruzioni vulcaniche degli ultimi 10.000 anni. “Questo gruppo internazionale di studiosi ha svolto un lavoro enorme per far luce su una sola di queste eruzioni”, conclude Andrews. Ripercussioni globali Nonostante l’eruzione sia stata equatoriale, ebbe ricadute sul mondo intero. “Il clima ne risentì per almeno due anni”, dice Lavigne. Lo abbiamo dedotto analizzando gli anelli di accrescimento di alcuni tronchi di albero che presentavano tassi di crescita insoliti, da modelli climatici e da documenti storici ritrovati in Europa”. Alcune cronache medievali, per esempio, descrivono l’estate del 1258 come un’estate incredibilmente fredda, in cui i raccolti furono scarsi e piogge incessanti alimentarono flussi distruttivi: fu “un anno senza estate”. L’inverno immediatamente successivo all’eruzione, invece, in Europa occidentale fu più caldo: effetto che potrebbe essere ricondotto a un’eruzione altamente sulfurea avvenuta ai tropici. Il gruppo di ricercatori fa riferimento a documenti storici provenienti da Arras, nel nord della Francia, che descrivono un inverno così mite che “il ghiaccio durò a malapena due giorni”, tanto che nel gennaio 1258 “c’erano persino violette, fragole e meli in fiore”. Documenti storici indonesiani parlano invece di una catastrofe più distruttiva e immediata. Scritti su foglie di palma, i testi in giavanese antico del Babad Lombok descrivono una massiccia esplosione vulcanica che formò una caldera sul Monte Samalas, sull’isola di Lombok. Si parla della morte di migliaia di persone a causa della caduta di cenere e di flussi piroclastici letali che distrussero Pamatan, la capitale del regno, e le terre circostanti. Anche se nei documenti non viene specificata una data esatta, gli scienziati, combinando i dati storici con le prove scientifiche dell’eruzione, sono riusciti a provare che la catastrofe avvenne entro la fine del XIII secolo. Andrews sottolinea che documenti che descrivano eruzioni di questa portata sono estremamente rari perché esplosioni simili accadono solo una volta ogni 600 anni. Inoltre “chi avesse voluto scrivere una cronaca di un evento del genere avrebbe dovuto trovarsi vicino all’eruzione, ma allo stesso tempo abbastanza distante da non venirne travolto”. Nel caso dell’eruzione del vulcano Samalas, potrebbe rimanere da scoprire una testimonianza storica molto più preziosa di un testo scritto: le vestigia della capitale Pamatan dell’antico regno di Lombok, che probabilmente venne sepolta nel corso della devastante esplosione. “Pamatan potrebbe rappresentare una ‘Pompei del lontano oriente’”, sottolineano gli autori dello studio, ma nessuno al momento può dire in quale stato si trovi. “È certamente un’ipotesi affascinante”, aggiunge Andrews. “A volte gli effetti di un flusso piroclastico sono relativamente leggeri, come nel caso di Pompei, dove la cenere uccise tutti gli abitanti ma non cancellò la città. Altre eruzioni, invece – come quella del 1980 del vulcano Monte Sant’Elena, nello stato di Washington – distruggono ogni cosa, fino a modificare il paesaggio circostante. Nel caso di quest’eruzione ancora non possiamo dire come sia andata”. Fonte: www.ilnavigatorecurioso.it
National Geographic – Il gruppo di ricerca che ha condotto lo studio, guidato dal geografo Franck Lavigne della Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne, sostiene che quest’eruzione che diffuse la sua cenere da un polo all’altro del pianeta avrebbe avuto origine dal vulcano Samalas, che si trova sull’isola indonesiana di Lombok. E l’ha datata tra maggio e ottobre del 1257. “È da trent’anni – da quando i glaciologi ottennero le prove dell’eruzione – che si cerca di capire quale vulcano l’abbia prodotta”, racconta Lavigne. I vulcanologi ne hanno cercato l’origine ovunque, dal vulcano Okataina in Nuova Zelanda al vulcano El Chichón messicano. Secondo gli scienziati, quest’eruzione fu di magnitùdo otto volte superiore rispetto a quella della famigerata esplosione del Krakatau del 1883 e due volte quella del Tambora del 1815. “Finora si era creduto che l’eruzione più devastante degli ultimi 3.700 anni fosse stata quella del vulcano Tambora”, continua Lavigne, ma la nostra ricerca rivela che quella del 1257 fu ancora peggiore. Un’indagine interdisciplinare Per risolvere il mistero, il gruppo di ricerca, costituito da scienziati provenienti da vari ambiti, ha unito risultati già esistenti con dati nuovi ottenuti con la datazione al radiocarbonio e analisi chimiche di detriti vulcanici, studi stratigrafici e documenti storici. “Quest’eruzione era già nota a numerosi ricercatori di discipline diverse”, spiega Lavigne, “ma probabilmente ognuno di loro ha sempre lavorato individualmente, senza confrontarsi con gli altri. Sono convinto che questo sia un punto chiave da tenere presente nel momento in cui si vogliano intraprendere ricerche su altre eruzioni. Il nostro gruppo univa geologi, geochimici, geografi, storici, esperti della datazione al radiocarbonio e molti altri scienziati: la combinazione di diverse specializzazioni è stata fondamentale per riuscire a interpretare i vari tipi di dati”. Il cataclisma scagliò in cielo ben 40 chilometri cubi di detriti, che arrivarono a 43.000 metri di altezza. Quando ricaddero, si depositarono su tutto il pianeta. Gli scienziati hanno analizzato campioni di questi depositi vulcanici prelevati da oltre 130 punti diversi per ottenere un quadro stratigrafico e sedimentologico che li aiutasse a capire come si svolse l’eruzione. Per rendere più precisa la datazione dell’eruzione, i ricercatori hanno analizzato campioni di tronchi d’albero carbonizzati e di alcuni rami che si trovavano sul fianco dei vulcani Samalas e Rinjani. I dati ricavati dal radiocarbonio hanno collocato l’eruzione intorno alla metà del XIII secolo e hanno escluso che i campioni analizzati fossero antecedenti al 1257. In questo modo, è stato possibile escludere altri vulcani, come l’El Chichón e l’Okataina: le eruzioni da essi prodotte risalgono a un periodo incompatibile con questo intervallo di tempo. Spingendosi ancora più lontano, gli scienziati si sono concentrati sul solfato e sulla tefrite vulcanici rimasti intrappolati all’interno di carote di ghiaccio prelevate sia in Groenlandia che in Antartide. Secondo Lavigne, l’”impronta digitale” geochimica dell’eruzione sarebbe stata individuata due decenni fa. “Dall’analisi delle carote di ghiaccio vicino a entrambi i poli sappiamo che l’eruzione fu tropicale”. Questo dato ricavato dall’analisi delle carote di ghiaccio ha ristretto il campo ulteriormente, escludendo dalla rosa dei candidati il vulcano Quilitoa in Ecuador, che aveva prodotto una massiccia eruzione circa nello stesso periodo. I risultati dello studio della composizione geochimica di frammenti vetrosi ritrovati negli strati di ghiaccio sia della Groenlandia che dell’Antartide, invece, hanno escluso il vulcano Quilitoa, poiché il vetro delle sue tefriti è risultato incompatibile con quello dei frammenti. Al contrario, il vetro del vulcano Samalas è risultato compatibile. “Questo mostra che ci sono molte cose delle eruzioni vulcaniche che non sappiamo, anche riguardanti questioni che potrebbero sembrare basilari, soprattutto relative a queste eruzioni così imponenti”, dice Ben Andrews, geologo del Global Volcanism Program della Smithsonian Institution e responsabile di un database pubblico che raccoglie le eruzioni vulcaniche degli ultimi 10.000 anni. “Questo gruppo internazionale di studiosi ha svolto un lavoro enorme per far luce su una sola di queste eruzioni”, conclude Andrews. Ripercussioni globali Nonostante l’eruzione sia stata equatoriale, ebbe ricadute sul mondo intero. “Il clima ne risentì per almeno due anni”, dice Lavigne. Lo abbiamo dedotto analizzando gli anelli di accrescimento di alcuni tronchi di albero che presentavano tassi di crescita insoliti, da modelli climatici e da documenti storici ritrovati in Europa”. Alcune cronache medievali, per esempio, descrivono l’estate del 1258 come un’estate incredibilmente fredda, in cui i raccolti furono scarsi e piogge incessanti alimentarono flussi distruttivi: fu “un anno senza estate”. L’inverno immediatamente successivo all’eruzione, invece, in Europa occidentale fu più caldo: effetto che potrebbe essere ricondotto a un’eruzione altamente sulfurea avvenuta ai tropici. Il gruppo di ricercatori fa riferimento a documenti storici provenienti da Arras, nel nord della Francia, che descrivono un inverno così mite che “il ghiaccio durò a malapena due giorni”, tanto che nel gennaio 1258 “c’erano persino violette, fragole e meli in fiore”. Documenti storici indonesiani parlano invece di una catastrofe più distruttiva e immediata. Scritti su foglie di palma, i testi in giavanese antico del Babad Lombok descrivono una massiccia esplosione vulcanica che formò una caldera sul Monte Samalas, sull’isola di Lombok. Si parla della morte di migliaia di persone a causa della caduta di cenere e di flussi piroclastici letali che distrussero Pamatan, la capitale del regno, e le terre circostanti. Anche se nei documenti non viene specificata una data esatta, gli scienziati, combinando i dati storici con le prove scientifiche dell’eruzione, sono riusciti a provare che la catastrofe avvenne entro la fine del XIII secolo. Andrews sottolinea che documenti che descrivano eruzioni di questa portata sono estremamente rari perché esplosioni simili accadono solo una volta ogni 600 anni. Inoltre “chi avesse voluto scrivere una cronaca di un evento del genere avrebbe dovuto trovarsi vicino all’eruzione, ma allo stesso tempo abbastanza distante da non venirne travolto”. Nel caso dell’eruzione del vulcano Samalas, potrebbe rimanere da scoprire una testimonianza storica molto più preziosa di un testo scritto: le vestigia della capitale Pamatan dell’antico regno di Lombok, che probabilmente venne sepolta nel corso della devastante esplosione. “Pamatan potrebbe rappresentare una ‘Pompei del lontano oriente’”, sottolineano gli autori dello studio, ma nessuno al momento può dire in quale stato si trovi. “È certamente un’ipotesi affascinante”, aggiunge Andrews. “A volte gli effetti di un flusso piroclastico sono relativamente leggeri, come nel caso di Pompei, dove la cenere uccise tutti gli abitanti ma non cancellò la città. Altre eruzioni, invece – come quella del 1980 del vulcano Monte Sant’Elena, nello stato di Washington – distruggono ogni cosa, fino a modificare il paesaggio circostante. Nel caso di quest’eruzione ancora non possiamo dire come sia andata”. Fonte: www.ilnavigatorecurioso.it
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