Era quasi mezzanotte. La piazza Rossa era vuota e la poca neve sui marciapiedi larghi e sconnessi, crocchiava sotto i piedi. Il chiarore tenue e diffuso rendeva l'aria grigia ed il cielo non completamente scuro. Nessun rumore, solo quello dei nostri passi e l'odore metallico della neve. Non si sentiva freddo, ma avevi la sensazione di camminare in una ovatta bianca. Eravamo entrati nella piazza dalla parte dei GUM e la sua convessità faceva sì che le mura rosse del Kremlino si rivelassero a poco a poco, come emergendo dietro la sommità di una collina. Era la prima volta che vedevo Mosca e non immaginavo certo quante altre volte ci sarei venuto, ad assorbire il torpore vigile di questa città, distesa nella tundra come un grande felino primordiale pronto a svegliarsi da un lungo letargo. Era la fine di novembre del 91 e la Moscova era già coperta di uno strato di ghiaccio, ma non faceva molto freddo, anche se ad ogni respiro una condensa umida addensava goccioline bianche rapprese sullo sciarpone di lana che non mi lasciava libero di respirare senza costrizioni. Ancora qualche passo e arrivammo al centro della piazza. In fondo, le cupole di San Basilio coloravano la discesa verso il fiume con pallidi bagliori di mistero.
Due uomini di guardia, immobili davanti al mausoleo, piramide a gradoni di marmo, parevano statue di pietra, sfingi aliene a protezione di un tempio di altri mondi. Non riuscivo a dire parole. Guardavo, assorbivo sensazioni senza cercare di spiegarle, di catalogarle, mettendole insieme un po' alla rinfusa, tante erano e così nuove ed inattese. Alle nostre spalle i GUM ed il museo coi suoi pinnacoli pesanti, erano masse di pietra scura e facevano sentire solo la loro presenza ingombrante e silenziosa. Su tutta la piazza spiccava orgogliosa, solo la stella rosso rubino della torre Spaskaja, alta nella notte, rosso acceso, unica cosa viva. Rimanemmo a lungo senza muoverci su quel tappeto bianco, intonso, al centro dalla piazza, con le orme che segnavano il nostro itinerario. Senza parlare. Dietro gli alti merli del muro, una velata oscurità chiara. Dall'alto cominciarono a scendere larghe farfalle bianche, umide e pesanti, a bagnare il pelo delle nostre shapke di volpe gialla, a cancellare il passare delle nostre orme, forse per farci dimenticare il luogo da cui venivamo, come se una strega malevola volesse spargere nell'aria un sentore di oblio e farci rimanere lì per sempre, almeno con l'anima.
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