Ieri, all’Assemblea Generale dell’ONU a New York, è stata presa una decisione storica: la Palestina entra infatti a far parte dell’ONU, non come Stato membro, ma come “Stato osservatore”. Si tratta di una svolta decisiva, maturata con percentuali bulgare (138 si, 41 astensioni, 9 no) sia per quanto riguarda il suo valore simbolico che per quanto concerne il significato politico. Da una parte, viene finalmente riconosciuto il diritto dei palestinesi ad avere un proprio Stato: una concessione di cui si è parlato per anni, ma che non era mai stata messa sul piatto della politica internazionale in modo concreto. In questo senso, mi pare abbastanza ridicolo quanto affermato da Susan Rice, ambasciatore USA all’ONU: “una risoluzione controproducente” per raggiungere l’obiettivo di “ due Stati per due popoli”. Viene spontaneo chiedersi perché il primo passo volto al riconoscimento di uno dei due stati coinvolti (l’altro, Israele, è riconosciuto nel 1948) sarebbe un ostacolo al riconoscimento del diritto ad esistere di entrambi gli Stati. Si tratta di una clamorosa contraddizione, che nasconde i veri motivi che hanno spinto i paesi del “no” a votare contro: Stati Uniti, Israele, Panama, Palau, Canada, Isole Marshall, Narau, Repubblica Ceca e Micronesia.
E qui arriviamo al secondo punto, che riguarda i significato politico del voto di ieri. L’ammissione come Stato osservatore della Palestina all’ONU significa assicurare all’autorità palestinese il diritto, sacrosanto, di rivolgersi al Tribunale Penale Internazionale nel caso si ritenesse vittima di crimini di guerra. Chi si ricorda del fosforo bianco utilizzato dall’esercito israeliano contro civili inermi (fonte: Amnesty International) durante l’operazione “Piombo Fuso” capisce quanto una simile possibilità di indagine internazionale abbia dato fastidio a certuni, che sfruttando il mancato riconoscimento internazionale dell’autorità palestinese si sono permessi di perpetrare azioni contrarie al diritto internazionale nei suoi confronti. Al tempo stesso, la Palestina avrà più responsabilità in campo internazionale, e dovrà cercare di espungere da sé le frange più estremiste che vogliono l’annientamento di Israele. Io spero sinceramente che questo riconoscimento sia un passo importante verso una pace effettiva, che possa portare alla pacifica convivenza di due Stati e due popoli. Una visione utopica? Ce lo dirà la storia.
In questa votazione, la Germania ha preferito astenersi. Il ministro degli esteri Guido Westerwelle (FDP) ha spiegato le ragioni del gesto usando le solite argomentazioni politicamente corrette: da una parte la Germania riconosce il diritto dei palestinesi ad avere un loro Stato, dall’altra sente la sua “particolare responsabilità” nei confronti di Israele e della sua sicurezza. Ovviamente la Germania aiuterà i palestinesi dal punto di vista economico e organizzativo, ma crede che questo non sia il momento più adatto per il riconoscimento di uno Stato palestinese. Alla fine il governo Merkel ha deciso prudentemente di non prendere alcuna posizione, sorprendendo gli osservatori internazionali che si aspettavano un voto contrario. Una simile virata all’ultimo momento testimonia l’imbarazzo tedesco rispetto a questa votazione: se da una parte, infatti, un buon numero di politici ed osservatori erano favorevoli al riconoscimento, dall’altra il panico che assale la Germania ogni volta che occorre prendere una decisione che abbia a che fare con Israele aveva causato un propendere verso il voto contrario: tuttavia, quando si è capito che il “si” avrebbe vinto comunque, si è deciso di perseguire la via più comoda.
Il problema è che i tedeschi non sono ancora riusciti a venire a patti col proprio passato, rimanendo vittima di un senso di colpa tanto ostentato quanto posticcio. Se, da una parte, si fa di tutto per sdoganare il nazismo attraverso mostre, celebrazioni, libri, fotografie, studi particolareggiati eccetera, rimane tuttavia l’impressione che il totalitarismo si sia abbattuto sulla nazione come una sorta di calamità naturale. A mio parere si sta ancora rifiutando di comprendere le motivazioni strettamente politiche che stanno alla base della vittoria elettorale di Hitler e della conseguente seconda guerra mondiale. Per quell’assurdo pregiudizio che considera la spiegazione un tentativo di giustificazione, si preferisce parlare di questo “male assoluto” che ha infestato la Germania come qualcosa di biblico e fondamentalmente inspiegabile. E’ vietatissimo esporre simboli o compiere gesti che ricordino quel terribile passato, ogni anno riparte il solito dibattito sulla necessità o meno di mettere fuorilegge l’NPD, ma ho la netta impressione che tutto questo rimanga a livello completamente superficiale, che si applichi una regola prestabilita senza interrogarsi sul suo senso (cosa tipica in questo paese). Se è vero che il nazismo è stato quanto di più vicino al male assoluto visto sulla terra, ciò non toglie che abbia avuto una genesi materiale, le cui dinamiche peraltro, con le dovute proporzioni, non sono così distanti da quelle che stanno investendo l’Europa di questi tempi.
Ma la Vergangenheitspolitik tedesca non si è mai occupata di esse. Un’indagine più sincera e meno melodrammatica avrebbe forse salvato la Germania da quella miopia che ha dimostrato sia all’inizio che nello svolgimento di quella crisi internazionale di cui non si vede ancora la fine, e che rischia di mettere a serio repentaglio l’equilibrio dell’Unione Europea (che in occasione di questo voto ha mostrato ancora una volta una forte divisione) e del mondo intero. capire il passato vuol dire intervenire meglio sul presente, specialmente quando ci si trova in una posizione che non prevede l’astensione come possibilità.
Riccardo Motti
In alto: festeggiamenti a Nablus, copyright La Stampa; al centro bambina davanti alla sede ONU a Beirut, copyright Getty Images; in basso festeggiamenti per l’Anschluss, copyright diepresse.com