Alessandro Balduzzi
Il ritorno di Mosca alla ribalta sulla scena internazionale è avvenuto con una politica assertiva le cui radici affondano nella rinascita russa dopo lo smembramento dell’Unione Sovietica.
Tramontato il bipolarismo, la Russia di Eltsin si è rivolta ad Ovest avvicinandosi a istanze internazionali quali il G7, il Fondo Monetario Nazionale e l’Alleanza Atlantica. Nella misura in cui la Federazione si consolidava al proprio interno, soprattutto sul piano economico (e superata la crisi del 1998), l’infatuazione filoccidentale è stata progressivamente rimpiazzata dalla coscienza del proprio ruolo imprescindibile nel mondo e dalla volontà di difendere l’indipendenza e l’interesse nazionale russi. Visto da Mosca, il comportamento occidentale era stato quanto meno indisponente: alla volontà del Cremlino di entrare nel “club occidentale”, la NATO aveva risposto con il proprio allargamento a Est e il bombardamento dello storico alleato serbo; la reazione a questa cocente delusione fu quindi il varo di una diplomazia multi-vettoriale, con un ritorno all’ “Estero vicino” fu URSS e il riallacciamento dei rapporti con Pechino. Seppure tra alti (il ritorno all’ovile a stelle e strisce per lottare insime contro il terrorismo) e bassi (la crisi in occasione della guerra in Georgia nel 2008), questo graduale allontanamento dall’Ovest è continuato fino a oggi, coronato dalla frattura causata dall’annessione della Crimea in parte ricomposta da un parzialissima convergenza sul dossier siriano.
Per ritrarre lo stato dell’arte della politica estera russa, è innanzitutto necessario adottare la divisione del mondo come intesa al Cremlino: l’ex-impero sovietico (fatte salve le repubbliche baltiche) sotto l’etichetta di “Estero vicino”, il resto del globo come “Estero lontano”.
Il primo spazio viene visto da Mosca come propria naturale e irrinunciabile zona d’influenza, all’interno della quale qualsivoglia intervento straniero è visto come un’inammissibile ingerenza. Ciononostante, gli sforzi russi per evitare un moto centrifugo della regione sono stati profusi invano: tra rivoluzioni colorate e piazze Maidan varie, né la Comunità degli Stati Indipendenti, concepita come un erede più “soft” del gendarme sovietico, né il germe dell’Unione Euroasiatica lanciata da Putin nel 2011 si sono rivelati in grado di tenere a bada lo spirito ribelle degli ex-fratelli socialisti. L’estero vicino riveste un’importanza primaria per Mosca, non tanto per ragioni storiche e culturali innegabili, ma piuttosto per questioni di interesse economico e strategico. La stabilità dei territori confinanti, soprattutto se suscettibili di diventare centri di propagazione del terrorismo islamico prossimi a gineprai come quello ceceno, è una priorità per la Federazione; ed egualmente imprescindibile è il controllo sia dei giacimenti di idrocarburi della zona che degli oleodotti e dei gasdotti che la attraversano.
Il “vicinato” russo, però, è circondato da attori grandi e dinamici quali la Cina, l’India, l’Europa e il Vicino Oriente, ed esso costituisce uno tra i maggiori teatri di confronto tra Mosca, Washington e Pechino. Non indifferenti a gas e petrolio, gli Stati Uniti sono penetrati nella regione in chiave antiterrorista e il Cremlino vede all’orizzonte ulteriori tentativi di cambi di regime “democratizzanti” a scapito degli attuali governi sì autoritari, ma garanti di un’accettabile grado di stabilità. La Cina, invece, ha già firmato vari contratti per la costruzione di infrastrutture per l’industria estrattiva locale, e il suo ruolo è centrale nell’Organizzazione di Shangai per la Cooperazione, composta da i due giganti e da Kazakhstan, Kirghizistan, Tadjikistan e Uzbekistan: un’organizzazione finalizzata alla cooperazione e alla limitazione reciproca al tempo stesso, visto che l’intesa sino-russa può reggere laddove si tratti di lotta al terrorismo islamico e all’invasione americana, ma certo non tollererebbe la subordinazione di un paese all’altro.
Se volgiamo lo sguardo oltre i confini dell’estero vicino, l’Asia costituisce un’area privilegiata per il Cremlino, un bacino da cui attrarre investimenti e in cui riversare parte dei propri idrocarburi. Vista la prossimità geografica, l’avanguardia della politica levantina di Mosca è costituita dall’Estremo Oriente russo, il quale, futuribimente, dovrebbe divenire la locomotiva economica del paese grazie alle sue riserve in idrocarburi e minerali. Gli ostacoli allo sviluppo della regione, tuttavia, sono numerosi e risolvibili solo nel medio-lungo periodo: dalla fine della Guerra Fredda e dalla conseguente perdita del proprio ruolo strategico, l’Estremo Oriente soffre di gravi deficit infrastrutturali, di un’inarrestabile crisi demografica e di corruzione endemica. Alla ricerca di una diversificazione nei fornitori di idrocarburi vista la dipendenza da un Medio Oriente in perenne subbuglio, le potenze asiatiche potrebbero quindi finanziare un’inversione di tendenza nella regione.
Accanto al prezioso contributo di paesi come Taiwan, Corea del Sud e Giappone (al netto del contenzioso territoriale legato alle isole Curili, occupate da Mosca alla fine della Seconda Guerra Mondiale e rivendicate da Tokyo), è Pechino a giocare la parte del leone. Dopo una relazione burrascosa per buona parte dell’era sovietica, l’accordo di amicizia e cooperazione siglato nel 2001 ha sancito il ritorno a un dialogo fondato sulla difesa degli interessi nazionali di ciascuno e sul containment dell’egemonia statunitense. Quest’alleanza pragmatica è dettata dalla volontà di compensare le proprie reciproche défaillances: la Russia guarda alla Cina come a una superpotenza economica, mentre Pechino guarda a Mosca come a un gigante militare e nucleare. Tra gli ambiti di convergenza figura anche quello dell’unità nazionale e dell’integrità territoriale:la Russia si oppone all’indipendenza di Taiwan, pur non disprezzandone gli investimenti, e riconosce il Tibet come cinese, mentre la Cina approva il pugno di ferro russo in Cecenia e ha riconosciuto l’annessione della Crimea, pur attraverso un silenzio-assenso non molto convinto.
Benché cordiale, l’intesa sino-russa è nondimento contrastata, con i due concorrenti a contendersi idrocarburi in Asia Centrale, commesse in America Latina e un ruolo di rilievo nel “new scramble for Africa”; e data la sua superiorità economica, Pechino precede Mosca di parecchie distanze. Questo rapporto ambivalente non risparmia neppure il nodo dell’Estremo Oriente russo, con la Russia al contempo bisognosa degli investimenti cinesi e timorosa del “pericolo giallo” rappresentato dall’immigrazione massiccia proveniente dalle popolate regioni della Cina settentrionale.
Spostandosi verso sud-ovest, la storica amicizia indo-sovietica prima e russo-indiana poi ha trovato nuova linfa vitale dopo la recente firma di contratti nel settore energetico e militare per un valore che potrebbe raggiungere i dieci miliardi di dollari. Un rapporto egualmente pacifico legava Mosca alla maggioranza dei paesi del Medio Oriente, in un pragmatico equilibrio economico e strategico che conciliava la cooperazione con Israele e il riconoscimento di Hamas, la fornitura d’armi a Damasco e il sostegno a Teheran. Il recente coinvolgimento militare in Siria ha, ovviamente, cambiato le carte in tavola.
Per concludere il nostro excursus sull’impegno del Cremlino nel mondo, ritorniamo al punto di partenza, ovvero all’Occidente. Per quanto riguarda il rapporto con la Casa Bianca, le convergenze di interessi su questioni come il terrorismo, la stabilità del Medio Oriente e il nucleare iraniano hanno prevalso sulle divergenze e mantenuto l’equilibrio tra prossimità e allontanamento. Come affermato da Robert Bridge, giornalista americano in servizio presso l’emittente russa RT, nel 2015 Mosca ha detto “Basta!” a Washington dopo aver assistito al caos seminato da oltreoceano in Asia centrale, in Medio Oriente e in Nord Africa a partire dal 2003. Ciò, tuttavia, è ben lungi dal rappresentare un divorzio.
E divorzio non c’è stato neppure tra Russia e Unione Europea, nonostante l’allargamento di questa ad Est fino a includere ex-membri del Patto di Varsavia e, ultimamente, la crisi ucraina con il suo strascico di sanzioni incrociate. L’interdipendenza eurorussa è imprescindibile in molti settori, in primis quello dell’energia. L’Europa ha bisogno del gas russo e Mosca deve necessariamente venderlo all’Europa, poiché una diversificazione dei fornitori da una parte e degli acquirenti dall’altra richiederebbe tempo e risorse finanziarie notevoli; in questo ambito, la ricerca russa di nuovi mercati per il proprio gas, in particolare verso la Cina (l’opzione turca è tramontata insieme all’amicizia storica con Ankara), deve fare i conti con la congiuntura economica fortemente sfavorevole innescata dal’effetto incrociato di sanzioni occidentali e brusco calo del prezzo del greggio. Se a ciò si aggiunge che l’Unione Europea è il primo partner commerciale, il primo fornitore di tecnologie e la prima fonte di investimenti stranieri di Mosca, si hanno tutte le buone ragioni per escludere una prossima rottura.
Di fatto dominio riservato putiniano con buona pace di Lavrov, la politica estera russa è leggibile attraverso il duplice prisma della ricerca di consenso, all’esterno e all’interno della Federazione. La Russia vuole farsi sentire sulla scena internazionale in quanto Paese affidabile e capace di imporre la propria visione, lontano anni luce dalla Russia debole e inascoltata degli anni Novanta. Al rivale americano di sempre, Mosca rimprovera una gestione del sistema internazionale caratterizzata da iniziative unilaterali non solamente infruttuose, ma addirittura dannosa per gli equilibri globali.Usciti vincitori della competizione bipolare, gli Stati Uniti non si sono rivelati all’altezza di ricoprire il ruolo di “controllore unico” dell’ordine mondiale, e il volontarismo russo in Ucraina e Siria mira a dimostrarlo; ma l’obiettivo di porre fine all’egemonia statunitense non cela un ingenuo tentativo di sostituire la Casa Bianca con il Cremlino come unico fulcro di un mondo unipolare (di fronte al dragone cinese, per di più!), quanto piuttosto l’affermazione della Russia come una grande potenza al pari di altre. La politica estera multivettoriale di Mosca è innanzitutto pragmatica e finalizzata alla difesa degli interessi nazionali.
Il comportamento all’estero di Mosca ammicca infatti agli elettori in patria sfruttando da una parte l’orgoglio nazionalista e dall’altro l'”economizzazione” della diplomazia. Divenuti un ricordo gli anni delle vacche grasse, con i prezzi del petrolio alle stelle, il contratto sociale tra Putin e i Russi, basato sulla prona accettazione di un paternale autoritarismo in cambio dell’ordine e della crescita dei salari, ha infatti cominciato a scricchiolare, e il consenso verso l’autocrate ex-agente del KGB è diminuito drasticamente. In questo quadro avverso, Putin ha saputo sfruttare il nazionalismo e la nostalgia dei fasti imperiali (zaristi e sovietici), mai del tutto sopiti in gran parte della popolazione, per ricreare in Russia un clima da fortezza assediata dall’Occidente ormai alle porte e procedere all’annessione della Crimea, salutata dal 90% della popolazione come il sacrosanto ritorno della penisola alla Madre Patria. Egualmente indirizzata al consenso interno è la politica di progressiva appropriazione dei giacimenti e delle infrastrutture per il trasporto degli idrocarburi, fino a detenerne pressoché il monopolio e controllarne il mercato. Questo “shopping energetico” è strettamente collegato alla nazionalizzazione del settore energetico, particolarmente tramite i leviatani Gazprom e Rosneft, e fa spontaneamente sorgere un dubbio: gli interessi degli oligarchi a capo delle suddette aziene corrispondono veramente agli interessi nazionali di un paese alla ricerca della diversificazione economica?
Cagione di perplessità in merito alle sue reali motivazioni, l’intervento russo in Siria si inscrive nelle tendenze di fondo che abbiamo appena delineato. In primis, Mosca vuole restaurare il proprio statuto di potenza internazionale, determinata a limitare i danni di un’America tentennante e indebolita dopo le macerie lasciatesi alle spalle in Afghanistan, Iraq e Libia. Dopodiché, affatto trascurabile è il tema della sicurezza dei propri confini a fronte di una propagazione del terrorismo islamico; visti i target dei raid russi, tuttavia, questo obiettivo è di gran lunga superato dalla volontà di mantenere in sella Bashar al-Assad e con lui tutti vantaggi annessi. Insieme all’annessionne della Crimea nel 2014 e l’accordo navale con Cipro nel 2015, la base navale di Tartous permette la realizzazione di una storica ambizione di Mosca, quella di giocare un ruolo di spicco nel Mediterraneo. Egualmente importanti sono poi il partenariato commerciale di Damasco, tra i primi aquirenti delle armi russe, e i giacimenti di idrocarburi del Mediterraneo orientale. E anche se i Russi non hanno dimenticato lo smacco sovietico in Afghanistan, Putin è pure riuscito a ottenere il consenso della maggior parte dei propri concittadini, trasformando l’impegno russo in una replica, benedetta dalla Chiesa ortodossa, della resistenza russa contro Hitler, con se stesso nei panni di un novello Stalin e Daesh come impero del male contemporaneo.
Fin qui tutto bene, parrebbe: la Russia ha affermato di avere le carte in regola per giocare un ruolo centrale sul palcoscenico internazionale, è temporaneamente riuscita a distogliere l’attenzione dall’Ucraina e, pur avendo compromesso l’alleanza con Erdogan, si è avvicinata ulteriormente all’Iran. Il grande interrogativo pertiene tuttavia il modo in cui Mosca uscirà dai pantani di Siria e Ucraina. L’apparente pragmatismo della multivettorialità russa ha preso in conto la propria sostenibilità? La Federazione deve affrontare numerose questioni interne; tra le maggiori vanno citate il disequilibrio demografico tra le varie parti del Paese, la dipendenza eccessiva dell’economia dalle esportazioni energetiche e la consequente necessità di diversificazione, il welfare state allo sfascio, la debolezza dell’apparato amministrativo, la corruzione endemica, il personalismo di Putin, la necessità dell’apporto finanziario e tecnologico dell’Occidente.
Se la nuova guerra fredda preconizzata da Edward Lucas pare destinata a restare nell’ambito delle elucubrazioni, una minaccia più concreta per Mosca, gigante dai piedi d’argilla, potrebbe essere quella della sovraestensione imperiale teorizzata da Paul Kennedy. Che i venticinque anni della Russia post-sovietica si rivelino come i cento giorni di napoleonica memoria? Una parte della risposta potrebbe trovarsi proprio tra Kiev e Damasco…