Due film, due commedie con cui il cinema italiano riflette sulla politica. Uno è Viva la libertà di Roberto Andò, con la “solita” interpretazione godibile di Toni Servillo. L’altro è Benvenuto Presidente di Riccardo Milani, con Claudio Bisio. Anticipo la mia sintesi. La sintesi, a mio avviso, è la casualità della politica o almeno della leadership. Molti i punti di contatto fra le due storie. Nel primo c’è il segretario del maggiore partito della sinistra, Enrico Oliveri. Dire Bersani e dire PD è ovvio. Il partito è stanco, privo di slanci, impigrito nei rituali consueti delle direzioni e delle segreterie. Il segretario ne è lo specchio fedele. Quando infine la noia diventa contestazione esplicita, il segretario fugge semplicemente via a Parigi, verso la libertà e il tentativo di riprendere il filo smarrito della vita. Panico nel partito. Il suo braccio destro crede di avere trovato una soluzione provvisoria alla scomparsa. In attesa del ritorno, il segretario sarà sostituito dal suo gemello. Il “doppio” è persona colta, già docente di filosofia, ma col difetto di essere reduce da una casa di cura per malattie mentali. La soluzione provvisoria si dimostra la soluzione ideale e insperata. Il gemello ha le parole giuste. Ha il tono giusto e l’approccio giusto. Il leader è stato trovato e il partito rimonta alla grande verso la vittoria. Cosa dice il nuovo leader? Propone ricette contro la disoccupazione e la crisi? Nulla di questo e nulla di niente. Non è questo che conta. Il film critico verso la politica politicante è neanche troppo sottilmente ammiccante verso la politica del personaggio e dello spettacolo. Anni luce distanti dal cinema “impegnato” di tempi lontani, di Rosi, delle Mani sulla città. E distantissimo dal cinema dell’impegno sociale in cui le classi e le condizioni sociali sono definite dal possesso di una bicicletta. Nel film di Bisio, un Parlamento chiamato ad eleggere il nuovo Presidente è paralizzato dalle furbizie e dai veti reciproci. L’ultima deleteria furbizia è quella di credere di buttare la palla fuori campo, eleggendo per perdere tempo (l’equivalente, direbbe qualcuno, di nominare due commissioni di saggi) il defunto eroe nazionale per antonomasia: Giuseppe Garibaldi. Il problema è che un Giuseppe Garibaldi esiste ed ha i requisiti giusti, a partire da quelli anagrafici. E anche qui, un uomo qualunque, un precario bibliotecario di provincia, assume per caso un ruolo e dimostra di svolgerlo assai meglio di quelli selezionati da una lunga carriera politica. Con tutti i prevedibili atteggiamenti irrispettosi di forme e convenzioni. Quelli cui ci stanno abituando ad esempio gli adorabili parlamentari grillini, così normali, così incompetenti talvolta, che però – udite, udite !- mangiano in pizzeria. Il verificarsi dell’utopia leninista con la cuoca che è a capo dello Stato. Solo che la cuoca vagheggiata da Lenin arrivava a conclusione di un processo di semplificazione della politica e dell’amministrazione. Non arrivava per sostituire ai riti un happening come l’invito a danza alla Merkel di Oliveri/Servillo, non troppo diverso dal cucù di Berlusconi o come la corsa coi bersaglieri in cui si cimenta il Presidente ex precario. Cosa ci dicono quindi i due film e i due autori, un po’ troppo apprezzati da critica e soprattutto pubblico? Lisciano il pelo al sentimento comune che è in estasi se papa Francesco dice alla folla “Buon giorno” o addirittura “Buon pranzo”. Basta con la seriosità della politica, quella di Moro e di Berlinguer e basta con i papi dottrinari e distanti. E basta anche alla politica come professione o intrallazzo. Sentimenti condivisibili. Manca però nei film proprio uno sguardo critico al nuovo senso comune. Gli scopi della nuova rappresentazione della politica non sono né visibili né accennati. In cosa la nuova politica vuole cambiare i nostri costumi e i nostri rapporti sociali? Vuole che i ladri di bicicletta (oggi di auto) siano severamente puniti? O vuole che nessuno abbia bisogno di rubare una bicicletta (o un’auto)? Come vuole risolvere il dramma degli imprenditori e lavoratori suicidi e quello della immane disoccupazione degli edili? Cementificando ancora e stimolando ampliamenti e terrazzini? L’essenziale insomma non è in discussione. La politica è competizione fra spettacoli, con folle che plaudono o inveiscono. Folle senza storia, classe sociale e appartenenze. Tra politica e vita non c’è contatto. La politica spettacolo è l’anestesia dei bisogni. E lo spettacolo continua.
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