La porta socchiusa

Creato il 30 aprile 2014 da Giuseppe Melillo @giuseppemelillo
Leggo su Facebook un post di Anna dal titolo "La porta socchiusa".
E' un post intenso, una storia vera raccontata da Anna e suo padre Antonio, maestro elementare ormai in pensione, memoria storica di una comunità e sopratutto una grande persona.
E ringrazio Anna e suo padre Antonio per aver salvato questa storia dalle sabbie del tempo e della dimenticanza.
Pensando a loro mi viene in mente proverbio arabo che dice: "beato colui che riesce a dare ai propri figli ali e radici."
Ecco il post che Anna mi ha gentilmente permesso di pubblicare:
Durante l’inverno del ‘44 una vecchietta di circa settant’anni vendeva ai passanti di Piazza Garibaldi castagne arrostite. 
Magra e smunta aveva predisposto a fornello d’occasione una vecchia latta sulla quale poggiava una padella appositamente forellata per le sue poche caldarroste, certo un’ originale attività per un paese del Sud.
La particolare foggia della padella con i suoi tanti fori diventeranno nel tempo, come spesso avviene nei piccoli borghi, oggetto di un detto che proferito a mò di minaccia in
occasione di liti accese e violente suonerà così:“ Tagghia fà u piett com a’ varola d’a Giacumb”.
“Zia” Grazia Venezia – così si chiamava la donna – raccoglieva di giorno piccoli pezzi di legno e arbusti rinsecchiti non molto più in là della sua abitazione e con questi alimentava un fuocherello flebile e stanco. 
 Era questa l’unica sua fonte di sostentamento di cui viveva in assenza del figlio Carmine partito per la guerra sul fronte russo. 
Riusciva così a sopravvivere a stento nella fiducia che il figlio potesse rientrare a casa sano e salvo.
Quel semplice e doloroso barlume di speranza non avrebbe avuto – tuttavia – un riscontro positivo. Alla povera donna, proprio all’indomani della fine della
guerra, un cablogramma del Ministero della Difesa annunciava che il soldato Giacumbo Carmine veniva dichiarato “DISPERSO”.
E fu così che la sofferenza e la solitudine della povera “zia Grazia Venezia” si trasformarono definitivamente in un vero e proprio calvario. Lacrime copiose rigavano il suo viso emaciato e lamenti accompagnavano l’intera sua giornata. Alla sera, dopo aver venduto solo qualche caldarrosta, le invocazioni di aiuto a Dio chiudevano la sua giornata di lavoro.
In casa, quelli che erano stati i pubblici lamenti si tramutavano in un pianto straziante e disperato sino allo sfinimento e pur tuttavia, “zia Grazia”, ormai esausta, aveva la premura di accostare la porta di ingresso lasciandola socchiusa nell’infinita speranza che Carmine potesse ancora tornare vivo.
Spesso, a tarda notte, passanti pietosi la invitavano a chiudere l’uscio e a riposare, ma senza ottenere alcun risultato. 
Sarà così che “zia Grazia” morirà, senza mai aver chiuso l’uscio di casa e pronunciando sulle labbra secche di madre il nome di Carmine.
  
Bernalda, 24 aprile 2014
Anna e Antonio Salfi



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