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La potenza mediatica del jihad (il nuovo modello di attentatore)

Creato il 07 luglio 2015 da Danemblog @danemblog

L'attentato alla centrale di gas a Saint-Quentin-Fallavier, Francia sudorientale (molto più vicino a Torino che a Parigi), e quello sulla spiaggia di Soussa, nota meta turistica tunisina, sembravano avere in comune una cosa: chi aveva agito era un musulmano modello, uomini in crisi di identità, isolati, pazzi schiantati, "lupi solitari" come si dice. Ma non era vero del tutto: la linea comune semmai era un'altra, più profonda, e si trova in un libro di qualche tempo fa, non troppo noto in Italia, che si intitola “Idaraat al Tawahush”, ossia “La gestione delle barbarie”. L'autore, Abu Bakr Naji ─ un ideologo qaedista ucciso nel 2008 da un attacco drone in Pakistan ─ spiega nel testo che la nazione dei musulmani, la Umma, dovrà attraversare varie fasi prima di arrivare all’equilibrio finale del Califfato. La prima di queste riguarda appunto la gestione della barbarie: una campagna iperviolenta per destabilizzare gli Stati di diritto, mettendo nell’obiettivo i luoghi più sensibili e i più delicati ─ e con quegli attacchi lo scopo è stato raggiunto: una centrale del gas in Francia gestita da una ditta americana in affari con l’Arabia Saudita, cioè tutti insieme i demoni del jihad; una spiaggia tunisina, paese simbolo della vittoria delle Primavere arabe, dell'Islam di governo su quello di regime, che si regge sul turismo.
S'è poi scoperto che dietro a quegli uomini apparentemente ordinari, c'erano fili intrecciati con il jihadismo più attivo. Yassin Salhi, l'attentatore francese, aveva uno scambio di messaggi piuttosto intenso con un jihadista francese ora in Siria: il mezzo scelto Whatsapp, quello che stiamo usando tutti per chattare con gli amici e con cui ci inviamo foto a "costo-zero". Salhi ─ questo è il dettaglio più macabro della vicenda ─, s'è scattato un selfie (c'è qualcosa di più mediatico adesso?) con la testa della sua vittima e l'ha inviato al suo contatto siriano. Il procuratore di Parigi François Molins ha detto che «ha decapitato la sua vittima per garantire al suo atto la massima pubblicità».
Pure il pazzo della spiaggia tunisina aveva contatti con il mondo del jihad: sembra che avesse ricevuto addestramento militare in un training camp libico, a Sabratha per l'esattezza ("città dell'Eni" di cui sono noti i link con l'IS): insieme a lui, aveva imparato ad usare le armi anche uno degli attentatori che qualche settimana fa hanno colpito il museo Bardo di Tunisi. E anche Seifeddine Rezgu mentre sparava tra gli ombrelloni di Soussa, ogni tanto scattava foto ai corpi delle vittime col suo smartphone, si faceva dei selfie. È stato ucciso, chissà sennò dove sarebbero finite quelle foto, magari pubblicate tra qualche tempo in un video propagandistico o sulla rivista ufficiale dello Stato islamico, Dabiq.
Rezgu aveva un nome de guerre, Abu Yahia al Kairouani, dove “al Kairouani” indica la provenienza geografica dell'uomo. Kairouan è una città legata alle radici storiche dell'Islam in Africa: la sua moschea è stata la prima ad essere costruita nel continente. Il minareto di quella moschea era sulla copertina del numero di aprile della rivista dello Stato islamico, Dabiq 8, con sotto il titolo “Un giorno l'Africa sarà governata soltanto dalla sharia”. Una dichiarazione simbolica, così come simbolico e mediatico era il nome preso dall'attentatore di Sousse.
Man mano che procedono le inchieste, si scopre che c'è molto poco self-made in questi gesti, sebbene la radicalizzazione mediatica è una componente preoccupante di questo “jihad 2.0”. Sembra però che al modello “pazzo problematico che vede video e si fomenta da solo a casa”, stia sfuggendo un passaggio: quei pazzi poi prendono contatti e diventano insider del jihad ─ almeno in parecchi. E allora il modello diventa Mohammed Merah, l'attentatore che nel marzo del 2012 uccise a sangue freddo sette persone nell'area di Tolosa (compresi tre bambini nel cortile di una scuola ebraica). Quello stesso Molins definì la vicenda «autoradicalizzazione di un salafita dal profilo atipico», l'archetipo del "lupo solitario": solo che almeno in parte il procuratore parigino si sbagliò. Alex Jordanov, giornalista investigativo e documentarista esperto di islamismo, ha raccolto in un libro le prove dei collegamenti di Merah con il mondo jihadista tra Siria, Iraq e Pakistan. Viaggi segreti in terra di jihad, contatti con sigle minori e con esponenti più noti, addestramento e indottrinamento diretto. «Merah ha un posto d’onore nel pantheon del jihad mondiale (...). È l’idolo assoluto dei combattenti di Allah» di questa nuova generazione jihadista, spiega Jordanov.
Una generazione naturalmente vocata alla mediatizzazione delle proprie imprese: social network, chat, video, pubblicazione e condivisione. Luoghi in cui si crea la sensibilizzazione personale, che poi però passa ai contatti diretti, e spesso qui si perdono le tracce, per poi riaffiorare dal (quasi) nulla. È questa la nuova tipologia di attentatore: menti malate che si muovono tra le zone grigie in quasi autonomia, si inseriscono in reti che li fomentano e li formano, e poi esplodono. Peggio, delle cellule perché meno “rumorosi” e più difficili da individuare; peggio dei “lupi solitari” perché ancora più motivati e tecnicamente organizzati.

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