Non si ha ancora notizia del plausibile ripetersi a Parigi della passerella che abbiamo già visto farsi immortalare in foto ricordo dopo l’attentato a Charlie Hebdo, Tony Blair compreso. Forse sono ancora troppo straniti per organizzarsi, probabilmente impauriti che qualche scheggia impazzita colpisca i grandi della terra dopo essersi accanita con i piccoli, quelli che vanno in un ristorante etnico la sera di venerdì, allo stadio, in una sala a ascoltare una band, “giustiziati” a raffiche di mitra da un plotone di esecuzione che applica una sentenza.
Mi fa paura il fanatismo manovrato e finanziato, le sue formazioni sostenute o perseguite ad intermittenza a seconda di interessi imperialistici, a accreditare uno scontro di “civiltà” misurata con gli indicatori dell’affezione per il capitalismo, sull’ascolto di Mozart in modo che copra cannonate, sulla contemplazione di paesaggi e opere d’arte non ancora espropriato o consegnato a fondazioni e Musei. Mi fa paura anche l’antifanatismo, quello altrettanto estremo e cieco, quello di certe profetesse di ieri e di molti leader di oggi, che fa finta che il motore che muove gli attentati sia un credo religioso esaltato, combinato con antiche e nuove frustrazioni, per far dimenticare cause e responsabilità di guerre che hanno iniettato un tremendo combustibile di morte, attraverso fame, dissipazione di risorse, repressione.
Mi fa paura il terrorismo quando diventa un concetto astratto e apparentemente immateriale quanto i suoi burattinai, quando si declina in espressioni e manifestazioni tanto ferine da sorprenderci quando si trasferiscono da Beirut o da Kabul concretizzandosi in Boulevard Voltaire. Mi fa paura anche quell’antiterrorismo che, con violenza non solo verbale, si arroga da una parte il “dovere” della selezione dei soggetti pericolosi secondo origine, religione, colore, adottando come arma primaria il rifiuto, l’esclusione e la condanna aprioristica e incrementando marginalità, risentimento e collera, e dall’altra il diritto di toglierne altri a noi, secondo quel credo fondativo della post democrazia, la creazione – anche attraverso aiuti e nutrimento- del “nemico” in modo da persuaderci dell’ineluttabilità della rinuncia della libertà, delle prerogative, delle garanzie.
Il che non significa certamente assolvere o tollerare il terrorismo in quanto tale, ma di comprendere quanto sia sterile, insufficiente povera la risposta che gli diamo, prima quando è lontano dai confini, poi quando la belva, con passaporto francese o doppia nazionalità, è in casa nostra. E forse l’abbiamo incontrato in metrò, ci ha sfiorati al bancone di un bar e per miracolo o coincidenza fatale ne siamo usciti indenni chissà fino a quando.
Siamo in guerra, dicono. C’eravamo anche prima, anche se ci facevano credere che le bombe sono intelligenti perché le sgancia il civile occidente, anche se ci volevano persuadere che possano esistere conflitti umanitari e esportatori di democrazia, anche se ci hanno raccontato che l’uguaglianza passa attraverso il depredare di ricchezze e risorse popoli che non le sanno sfruttare per assicurare il meritato benessere a chi le “valorizza” e consuma, per dare il silicio a chi cambia con frequenza entusiastica i cellulari, perché possa conoscere la sazietà, sentire Bach, stordirsi di privilegi, dandoci l’impressione che apparteniamo tutti a quel “ceto” che invece è di pochi sempre più opulenti, dei loro manager e generali, mentre noi siamo ormai scaraventati nella canea rabbiosa di chi non ha, la soldataglia in prima fila a prendersi i colpi.
È già cominciata la richiesta pressante rivolta al “mondo islamico” perché si dissoci dai violenti, nemmeno potessimo reclamare servizi d’ordine, vigilanza e delazioni, renitenza e disubbidienza. Come se fossimo nella condizione di esigerlo, noi che non ci siamo dissociati dalle guerre alle quali abbiamo partecipato e non solo come trasportatori di salmerie, non solo come trampolini di lancio, non solo come hangar e depositi, ma in prima fila, col colpo in canna, i bombardieri taroccati imposti a nostre spese, perfino di droni che sono la passione della colonnella Pinotti, che abbiamo acquistato e che benevolmente gli Usa, con ulteriore modesto esborso dovuto per gli optional, possiamo ora armare.
Siamo in guerra, si. E noi, la gente comune, quella che ha ancora la pretesa di camminare sui boulevard in una sera d’autunno ancora tiepida, di cenare in un locale etnico, di sentire una musica, lo siamo due volte. Ce l’ha proclamata chi muove quelle organizzate e “legali”, approvate dall’Onu, quelle “difensive” di beni e regimi, facendo rientrare tra queste quella dichiarata al lavoro, ai diritti, alle cure, alla libertà d’espressione, di religione e inclinazione sessuale e di pensiero, alla sovranità degli stati e alla democrazia. E anche chi si imbottisce di esplosivi offerti dai soliti padroni, chi ci spara con armi Made in Italy che hanno fatto lunghe e tortuose strade per arrivare da loro, chi fa proselitismo per un dio dietro alla cui immagine immateriale si cela il materico idolo del profitto, cui non importa nulla di noi gente comune come nulla importa della gente comune di Siria, Afghanistan, Libia, Somalia, Eritrea, Mali, Nigeria, insomma di quella tremenda e feroce geografia dello sfruttamento, della miseria, della fame e della paura.
Non ci vengano a dire che abbiamo di fronte un nemico invisibile. È visibile eccome, ha le sue gerarchie e i suoi soldati e finché non dichiareremo la pace sottraendoci alla loro guerra, riprendendoci la facoltà di dire di no alle sue battaglie, alle sue armi, ai suoi droni, alle sue spese militari, finché non ridiventeremo padroni delle nostre vite invece di offrirle in necessario sacrificio, non avremo il diritto di dirci uomini e civili. Da oggi mi risuonano dentro gli ultimi versi di una poesia di Brecht: …. alla fine dell’ultima (guerra) c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente, egualmente.